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"Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la lettura è un'immortalità all'indietro."

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Racconti di lettura

L’abbraccio, E. Masina

Non riesco a trovare la posizione giusta nel letto che mi permetta di prendere sonno.
Tu mi appari come un fantasma nella semioscurità creata dalle tapparelle mal chiuse. E io cerco di sfuggirti girandoti le spalle.
Ma ti ritrovo anche dall’altra parte e mi rigiro.
Non voglio pensarti. Non ho ancora la serenità per farlo. Neppure per giudicare quanto è avvenuto. Spero che tu abbia pazienza.

L’abbraccio (Robin Edizioni) narra il tramonto di una storia d’amore, in cui il lettore entra in punta di piedi tramite il racconto alternato dei due protagonisti.
Lui e lei – Elena e Marco – sono le voci narranti che si rincorrono e sovrappongono tra le pagine, condividendo degli spaccati del loro vissuto. Il loro è un dialogo muto? Uno scambio epistolare che non giunge a compiutezza? Il lettore non lo sa, ma sarebbe più corretto dire che non è fondamentale approfondirlo.
La narrazione funziona, offre i pezzi di un puzzle e sta a chi legge capire come ricostruirlo.
Le ragioni della rottura emergono così gradualmente, attraverso flashback, considerazioni e retrospettive. Sono soprattutto le interpretazioni di eventi – filtrati dallo sguardo di Lui e di Lei – che svelano retroscena scomodi, parole non dette, retaggi socio-culturali che pesano come macigni nella definizione dell’identità di coppia. Il maschilismo, in particolare, si insinua prepotente e rende la comunicazione difficile, l’intimità spesso un gioco di prevaricazione.

Ma io sono disposta a sentirmi, in quei momenti, solo come il corpo del quale hai bisogno.
Lo so, non è giusto, ma questo modo di subire è il martirio che la donna ha ricevuto e accettato da sempre. È, purtroppo, il risultato dell’educazione sbagliata che ci è stata impartita valorizzando quasi il potere fisico dei maschi sulle femmine.

Non si può non apprezzare come l’autore sappia condensare in pochi episodi, per giunta entro il limitato spazio narrativo di un romanzo breve, tutto il “marcio” di una società che ancora non riesce a liberarsi dalle discriminazioni di genere. Il tutto, peraltro, regalando una lettura estremamente piacevole: la critica sociale emerge infatti in filigrana senza inaridire il racconto, che resta schietto e accorato come la pagina di un diario.
Non da ultimo, è emblematico il finale: la redenzione di Marco, che avviene tramite una paradossale sperimentazione delle relazioni a “parti invertite”, conduce a un epilogo del tutto inaspettato, che ribadisce ancora una volta l’importanza di prendersi cura dell’altro nei tempi e nei modi giusti.

Carle vs. Lorenzo Palloni e Miguel Vila

Due amiche che si chiamano Carla, hanno lo stesso segno zodiacale, amano le stesse cose tra cui i fumetti, non potevano non decidere di fare qualcosa insieme. Da qui è nata Carle vs, la nostra rubrica di interviste doppie a fumettist* per farvi scoprire e leggere di nuovi fumetti.

Fortezza volante è fino ad ora il fumetto più bello che ho letto quest’anno, scritto da Lorenzo Palloni e disegnato da Miguel Vila, edito da Minimum fax. Una storia sensazionale, originalissima, che vi porterà a seguire le vicende dei protagonisti che si muovono durante il ventennio fascista in un misto di avventura e sci-fi. Non potete assolutamente non leggere questo fumetto, che parte da una storia vera ma che si svilupperà in un vortice inaspettato, corredato da disegni fantastici che vi faranno compeltamente immergere nella narrazione. Ho il piacere di ospitare Lorenzo Palloni, mentre per conoscere le risposte di Miguel Vila dovete andare su una banda di cefali!

Ciao Lorenzo e benvenuto su Tararabundidee e grazie mille a entrambi per esservi prestati a questa doppia fatica. La prima domanda della nostra intervista è ormai di rito: com’è nata la collaborazione con Miguel e come avete lavorato insieme a questo graphic novel?

Ciao Carla! Sempre un piacere tornare qui. La collaborazione con Miguel è nata perché cercavo qualcuno che potesse dare un aspetto autoriale e contemporanea ad una storia difficile, corale e ambientata negli anni ’30.
Avevo appena letto “Padovaland” e ne ero rimasto folgorato, l’ho contattato, ha letto il dossier che avevo preparato per Minimum Fax e ha detto sì. È stato un salto nel vuoto ma alla fine abbiamo lavorato come macchinista e treno, direi: ognuno di noi ha dato dei limiti che l’altro ha usato in maniera ottimale e
stimolante. Il risultato mi sembra bellissimo, ma come si suol dire: ogni scarrafone…

In Fortezza volante avete raccontato un episodio alquanto sconosciuto e insolito accaduto durante il regime fascista, quando nel 1933 quando “un velivolo non convenzionale” si schiantò al suolo nei pressi di Vergiate, nel varesotto, e lasciò dietro di sé una densa coltre di fumo rosa e un omicidio irrisolto. Un mix di storia e fantascienza, insomma. Da dove nasce l’idea di crearci un fumetto? Come avete trovato il titolo?

L’idea viene da Carlotta Colarieti, curatrice della collana Cosmica di Minimum Fax, che come una vera produttrice hollywoodiana mi ha detto “mi piacerebbe fare una storia su questo evento, lo conosci?”. Io sono impazzito perché mastico la mitologia extraterrestre, da ragazzino ero fan di X-Files e di tutti gli
eventi ufologici che fanno da grottesco ma perseverante contorno alla nostra Storia occidentale. Subito ho capito il potenziale di rappresentazione contemporanea e di divertimento, non potevo non raccontare questa storia. Il titolo venne fuori da Mussolini stesso che in un controverso discorso cita – parafraso – “delle fantomatiche fortezze volanti di cui i nemici dell’Italia non dovrebbero preoccuparsi, al contrario del nostro valoroso esercito”. L’ho trovata un’immagine molto forte, qualcosa di gigantesco che galleggia e che è metafora di moltissime cose inerenti ai totalitarismi e al nostro bizzarro paese.

Siete riusciti in qualche modo a reperire materiale storico su questo episodio nonostante la censura fascista? Vi è capitato di trovarvi dinanzi a fake news o bufale dell’epoca?

L’evento stesso è probabilmente una bufala risalente agli anni ’90, anche se “qualcosa” sarebbe avvenuto secondo alcuni dispacci del tempo. È tutto molto nebuloso e gli abitanti di Vergiate, gli ufologi e certi storici tengono giustamente in vita la leggenda. La maggior parte delle bufale riguardo eventi
paranormali nasce dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con il boom economico, l’agiatezza familiare, la ricostruzione e la mancanza di minacce estere. Per “Fortezza Volante” mi sono informato sul contesto storico più superficiale attraverso libri di Storia Contemporanea che studiavo all’università, mentre per la vita quotidiana – fondamentale per una storia di provincia – ho letto e riletto le lettere e i diari di mia nonna Berta, ahimè ora non più con noi, ma che al tempo era ragazzina e avendo una penna
acutissima mi è stata fondamentale per la prospettiva umana.

In realtà, in Fortezza Volante il fatto reale rappresenta solo il punto di partenza per un viaggio nella fantascienza, nel romanzo storico, di spionaggio, d’azione. Come avete trovato la chiave giusta per mescolare tutti questi generi?

Quando una storia vuole essere raccontata, gli ingredienti ci sono già da soli perché è il messaggio che lo richiede e tu non puoi fare altro che seguirlo. Una volta che conosci i temi principali – la perdita della memoria, il tempo come arma, la paranoia del totalitarismo – sai anche che dovrà essere un corale,
perché servono più punti di vista; che dovrà essere una spy-story con venature thriller, perché la sfiducia e la tensione sono centrali; che la fantascienza sarà solo una scusa e che la cornice storica dovrà essere
credibile per quanto stramba e legarsi con il segno del disegnatore. In questo caso abbiamo trovato un aggettivo che era trasversale al racconto: grottesco, come il fascismo merita di essere.

Dal punto di vista della sceneggiatura la storia è strutturata in modo abbastanza lineare (suddivisione in atti, luoghi e tempi indicati in modo preciso ecc.) con un intreccio mai banale. Dal punto di vista grafico, invece, le tavole sono incredibilmente destrutturate, con le vignette che cambiano continuamente di forma, struttura, posizione. Come avete trovato l’equilibrio tra storia e disegni?

Questo è merito di Miguel, io potevo solo fidarmi. Nel senso che ho scritto un libro in prosa con le divisioni in tavole, i giripagina obbligatori, i dialoghi e le didascalie necessari per poi lasciare a Miguel – da sua richiesta – tutto il lavoro su divisione in vignette e regia. In fondo era impossibile sceneggiare in modo canonico un libro del genere con un disegnatore di questa forgia. Poi ci abbiamo rimesso mano perché non avendo il controllo sulle vignette e quindi sul ritmo ho scritto più del necessario e abbiamo tagliato un sacco di roba, meglio così. È stata un’esperienza stranissima e spettacolare, molto motivante
e piena di brividi: non conoscevo Miguel e aveva uno spazio di manovra incredibile. Qualcosa mi diceva però di fidarmi e ho fatto bene. In mezzo a tutto questo, l’editing di Carlotta è stato costante e fondamentale, lasciandoci tutto lo spazio di cui avevamo bisogno senza permetterci di sbrodolare.

Come mai il fumo, la fortezza e tante altre cose sono rosa in questa storia? Pensando a un’associazione banalissima di colori, tra fascismo, spie e ufo, l’ultimo colore che mi verrebbe in mente è il rosa, non è per la Barbie Fever, vero?

No, anche se vorrei fosse per Barbie – non vedo l’ora di andare al cinema. Quando abbiamo cominciato a lavorare a “Fortezza Volante” cercavo di immaginarmi come avrebbe lavorato Miguel e gli ho consigliato una palette minimale con colore dritti, contrasti forti, magari un grigio un rosa e un verde che fanno a cazzotti fra loro e con il nero delle divise dei camerati. Miguel ha poi espanso il pensiero e l’ha organizzato per linee temporali: tre tempi, ognuno con la sua palette. Il rosa è trasversale, è un colore kitch, luminoso, fuori dal mondo, fuori dallo spazio-tempo fascista, doveva esplodere negli occhi di un mondo triste e senza futuro, doveva venire da un altro mondo.

I personaggi di Fortezza volante sono fascisti a vari livelli e sono tutti caratterizzati da una profonda ambiguità perché ciascuno, in modo diverso, vuole soltanto perseguire i propri obiettivi. Neanche chi all’apparenza sembra più buono si salva. È questo frutto del loro essere fascisti?

In parte. Penso che fascismo ed individualismo abbiano una radice comune e molto italiana. Nessun fascista è mai stato integerrimo e mai lo sarà, è impossibile, è innaturale. I governi di destra prosperano sull’ipocrisia e l’ambiguità di mondi all’apparenza solidissimi che rispondono semplicemente a domande complesse e fanno presa su menti distratte o deboli o ignoranti. Il mondo è l’esatto opposto e non per questioni politiche, ma naturali: il progresso è l’unica via che conosciamo – anche se non è detto che sia quella giusta – in un mondo liquido e in costante movimento. Dualità, familismo e amoralità sono brutti sprazzi di umanità in un sistema disumano, che oltretutto ci portiamo dietro da sempre e che contraddistinguono il Belpaese anche oggi. Volevo che i personaggi di “Fortezza Volante” fossero italiani, quindi egoisti e refrattari a regole che loro stessi impongono agli altri e si impongono. Come
fanno a salvarsi personaggi così? E come potremo mai salvarci noi, quindi?

Il fumetto si apre alla fine degli anni ‘90. Quando chi legge si approccia al fumetto, all’inizio si trova in un clima familiare fino a che non si arriva al primo capitolo e allora si viene catapultati in una storia così ben costruita che si dimenticano quasi i piani temporali: ma siamo nell’Italia degli anni ‘30 e contemporaneamente ci sono tanti richiami al presente: contraddizioni enormi, storie sociali che si intrecciano, discriminazioni. Dove avete trovato il tempo di collegare anche passato e presente?
Stiamo rischiando di ripetere gli stessi errori del passato?

Lo stiamo già facendo, basta guardare le ultime elezioni nazionali. Ma è una tendenza globale, solo che da noi attecchisce meglio perché c’era già la consapevolezza malcelata che siamo un paese fascista, legalista, intollerante abbattuta da decenni di indebolimento del sistema scolastico. Non ci piace
che le cose cambino perché siamo un paese povero che fa finta di essere ricco, non c’è il tempo né la voglia di pensare a soluzioni, siamo troppo impegnati a sopravvivere, stritolati e stritolatori. Nel libro tempo e memoria si intrecciano, il primo è oggettivo e impalpabile; la seconda soggettiva e fallace.
Non penso sia diverso nella realtà. Siamo animali tragici in questo senso. Destinati a fallire e riprovarci e a dimenticarci cosa stavamo facendo e perché, quindi torniamo a fallire di nuovo – anche se avremmo le capacità di vincere. E solo allora andiamo sul gattopardesco, “cambiare tutto per non cambiare
niente”. In “Fortezza Volante” possiamo declinare il motto in “dimenticare tutto per ripetere tutto”.

Sono cresciuta a suon di X-Files, Roswell e Doctor Who e perciò sono curiosa di sapere quali serie, film vi hanno ispirato per le atmosfere di Fortezza Volante.

X-Files” uber alles, ovviamente. Una miniera d’oro di informazioni e ispirazioni è stata “The Mothman Profecies” dell’ufologo John Keel, che da adolescente mi riempì di terrore e meraviglia; “Base Terra”, un librone degli anni ’90 del Readers’ Digest pieno di storie vere o presunte tali di contatti con extraterrestri; i libri autobiografici del contattista George Adamski e la serie “Area 51” di Robert Doherty. Ma non credere che ci siano solo libri sci-fi, i gialli di Carlo Lucarelli in epoca fascista mi hanno aiutato con l’atmosfera e
certe dinamiche poliziesche mentre i corali di James Ellroy – soprattutto “Perfidia” (2015) e “Questa tempesta” (2020) – ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale mi hanno aiutato a capire la tenerezza da costruire fra i personaggi in un mondo che crolla – tenerezza necessaria a far venire fuori, per contrasto, la ferocia.

Anche l’ultima domanda della nostra intervista doppia è di rito: progetti in cantiere? Lavorerai ancora con Miguel?

Di progetti ce ne sono sempre, è il problema delle storie: sono infinite! Di mio ho così tanto in pentola che preferisco svelare le carte quando ce l’ho già in mano e non quando sono ancora nel mazzo. Ma l’obiettivo di trovare qualcos’altro da fare con Miguel c’è e ci è stato chiesto ufficialmente un pitch
per una casa editrice grossa e non necessariamente italiana. Ma davvero non c’è ancora niente quindi: acqua in bocca al momento. Qualche segreto lo sappiamo ancora tenere. Grazie, Carla!

Carle vs. Marco Taddei & Eleonora Antonioni

Due amiche che si chiamano Carla, hanno lo stesso segno zodiacale, amano le stesse cose tra cui i fumetti, non potevano non decidere di fare qualcosa insieme. Da qui è nata Carle vs, la nostra rubrica di interviste doppie a fumettist* per farvi scoprire e leggere di nuovi fumetti.

Questo mese vi portiamo nel mondo della scienza con un meraviglioso fumetto che parla della vita dello scienziato Alexander Von Humboldt (se non sapete chi è, è solo un motivo in più per scoprirlo attraverso questo fumetto). A scrivere di questo straordinario personaggio dell’800 sono Marco Taddei ed Eleonora Antonioni nel loro Un mistero alla luce del giorno, edito da Hoppipolla edizioni. Scenari meravigliosi, disegni dall’aria vintage, vi faranno scoprire le mirabolanti avventure di Alexander che è stato incaricato di salvare il mondo dalla Stirpe.
A parlare di questa meraviglia qui su Tararabundidee sarà la disegnatrice Eleonora Antonioni, per leggere le risposte di Marco Taddei dovete nuotare fino a una banda di cefali!

Ciao Eleonora e benvenuta su Tararabundidee. La prima domanda della nostra intervista doppia è ormai di rito. Com’è nata la collaborazione con Marco Taddei e come avete strutturato il lavoro per questo graphic novel?

Ciao a voi e grazie mille per l’invito! La collaborazione con Marco è avvenuta tramite la casa editrice che ha pubblicato il nostro libro, Hoppípolla. È stato contattato prima Marco e poi io. Conoscevo il lavoro di Marco, conoscevo un poco Alexander von Humboldt e quando mi è arrivata questa proposta ho accettato subito perché sembrava tutto talmente diverso da ciò che faccio di solito che non volevo perdere l’occasione di fare quest’esperienza!

Alexander von Humboldt è stato una vera e propria celebrità della scienza tanto che i suoi contemporanei lo definirono l’uomo più famoso al mondo dopo Napoleone. Nonostante questo, oggi sembra essere stato inabissato. Da dove nasce l’idea di dedicargli un fumetto e come mai, secondo te, è caduto nel dimenticatoio?

Tempo fa su TikTok ho intercettato un video molto interessante che analizzava il fatto che la nostra impostazione scolastica sia stata improntata nettamente più sulle materie umanistiche che sulle materie scientifiche. Questa cosa mi ha fatto venire in mente, per esempio, che Darwin, tra i pochi scienziati che a scuola si devono studiare, era nel mio libro di Filosofia. L’ho sempre trovato strano, un po’ come se per essere degno di essere approfondito ci fosse bisogno di inserirlo tra “i pensatori”. Forse le figure come quelle di von Humboldt spariscono proprio a causa di questo retaggio culturale e l’idea di dedicargli un fumetto nasce proprio dal voler dare valore a una figura come la sua, che tra l’altro oggi si inserisce molto bene anche nel discorso del cambiamento climatico e salvaguardia dell’ecosistema.

Come suggerisce già il titolo, Un mistero alla luce del giorno non è una biografia nel senso tradizionale del termine e mescola continuamente il piano della realtà e quello fantastico. Come avete trovato la chiave narrativa per raccontare questa figura così fuori dagli schemi e come siete riusciti a rendere così attuale un personaggio nato più di 250 anni fa?

Beh questa è una domanda sicuramente più per Marco, è tutta farina del suo sacco! Sicuramente la sua intuizione di inserire un piano narrativo fantastico alla narrazione della classica biografia ha aiutato a rendere la vita di uno studioso più emozionante. È vero che von Humboldt ha viaggiato molto, ma per ricercare e analizzare. L’elemento fantastico vivacizza, ma allo stesso tempo è funzionale a far arrivare in
modo più veloce ed esplicito il messaggio ecologista che deriva dall’approccio allo studio della natura intrapreso da von Humboldt.

Anche dal punto di vista grafico il fumetto mescola modernità, con una scelta molto particolare dei colori e uno stile retrò che ci porta indietro nel tempo. Com’è andata la ricerca su i luoghi che hanno visto la presenza di von Humboldt, da cosa ti sei fatta ispirare?

La ricerca non è stata semplice, anche perché la vita di Alexander von Humboldt attraversa tanti anni cruciali: nasce prima della rivoluzione francese e muore dopo la metà del 1800. Ho cercato di essere il più accurata possibile, in genere cerco di attingere da tutto ciò che posso: film, libri di storia dell’arte e storia del costume. Una cosa che mi ha ispirata molto nel mood, non solo come reference, sono le stampe di
moda di inizio ‘800. Trovo che abbiano dei toni di colori intriganti, da lì mi è venuta l’ispirazione di usare il rosa nella mia palette. Poi sapevo già che ci sarebbe dovuto essere il verde, non poteva non essere un colore dominante, infine ho aggiunto un viola per aggiungere un elemento di inquietudine.
Per quanto riguarda i luoghi la ricerca è stata molto faticosa, tante cose sono state ricostruite o immaginate da me. L’unico punto della storia in cui ho potuto attingere a reference molto specifiche è il capitolo finale perché il castello di Tegel ristrutturato in stile neoclassico è attualmente esistente. Vedendo le foto ho trovato molto singolare che sulle 4 facciate dell’edificio ci fossero le riproduzioni dei bassorilievi degli otto venti presenti nella torre dei venti di Atene e mi sono divertita a rendere omaggio a questo dettaglio.

Nel corso del racconto, Alexander von Humboldt entra in contatto con delle creature antropomorfe. Qual è la tua preferita e perché?

Montefur, il nostro gattone con gli stivali. Come si fa? È affascinante, suadente e facile da disegnare. A dir la verità, però, mi piacciono molto anche gli insettoni!

Alexander von Humboldt è stato un personaggio molto eclettico. Qual è l’aspetto della sua personalità che ti ha colpito di più?

La totale devozione a quello che amava. Accettare senza peso di essere un outsider pur di dedicarsi alla sua scienza. Sicuramente lo ha potuto fare da privilegiato, però non considero una cosa molto facile o scontata la conduzione di una vita così tanto fuori dall’ordinario per l’epoca in cui viveva.

Qual è il messaggio più importante che Alexander von Humboldt ha lasciato e che hai voluto trasmettere con questo fumetto?

Quello di tenere a mente il concetto di ecosistema, del fatto che alterare la natura ha delle conseguenze su un equilibrio molto più vasto di quello su cui si crede di impattare.

È difficile ritrovare oggi personaggi che hanno la stessa fama e le stesse intuizioni di Alexander von Humboldt, sembra che tutte le menti brillanti che possano effettivamente cambiare il mondo siano state fatte fuori. Secondo te, la Stirpe ha vinto?

La stirpe sta vincendo nettamente, ma c’è sempre chi lotta, la guerra non è finita!

Anche l’ultima domanda è di rito: hai altri progetti in cantiere? Lavorerai ancora con Marco Taddei?

Forse sì, forse no, chi lo sa!!!

Ringraziamo tantissimo Marco ed Eleonora per essersi prestati a questa intervista, noi ci vediamo sempre qui il mese prossimo!

Il caso Innocence, M. Bagnato

Ogni città ha la propria anima, luminosa o meno che sia, che ne pervade ogni viale, ogni cortile, ogni campanile di ogni chiesa. Può gettare ombre o rischiarare le tenebre nelle vite di chi la abita, ma in definitiva è la gente stessa a forgiarla, nel bene o nel male, a renderla quello che è. Ogni città ha la propria anima, ma quella di Emerald Falls era nera come la morte.

Il caso Innocence (Golem edizioni) di Mattia Bagnato è un romanzo duro, che non fa sconti.

Protagonista indiscussa è Clara, una giovane donna che, come scopriremo presto, ha compiuto uno spietato delitto – chi sia la vittima resta un mistero fino alle battute finali – e la cui salute mentale è posta sotto esame. Follia o premeditazione? È questo l’interrogativo che si pone il lettore e, con lui, la dottoressa Page, convocata per stilare una perizia psichiatrica e pronunciarsi in merito: sarà lei che dovrà decretare in quale struttura Clara sconterà la sua pena. Sì, perché a dispetto del nome – Clara Innocence – la nostra protagonista si dichiara colpevole senza mezzi termini, con una lucidità che non lascia spazio a interpretazioni. Eppure, addentrandosi nella sua storia, il lettore non può fare a meno di ritenerla una vittima più che la carnefice.

Il racconto è scandito in quattro fasi – a cui corrispondono altrettante sezioni del testo – che ripercorrono le tappe salienti dell’esistenza di Clara, narrando soprattutto i traumi che ne hanno provocato la progressiva deriva e, apparentemente inevitabile, caduta. A far da sfondo Emerald Falls, una cittadina degradata sulla quale sembra gravare un’ombra che condanna i suoi abitanti al baratro: la sua inquietudine così viscerale ricorda quella di Derry, nata dalla penna di Stephen King, a cui forse Bagnato si è ispirato nel rievocare un’idea di città che diventa parte attiva delle vicende che accadono ai protagonisti. Senza voler entrare nel merito dell’intreccio – originale, complesso e che merita di essere scoperto durante la lettura, con tutta la sorpresa che molti risvolti possono regalare – non si può non evidenziare quanto l’autore sia stato accurato nell’incastrare ogni tassello in maniera coerente e allo stesso tempo sbalorditiva. Per esempio i numerosi comprimari che attraversano le pagine non sono mai figure accessorie, ma giocano sempre un ruolo essenziale nella vicenda di Clara. Sorge quindi spontaneo chiedersi quanto l’ambiente, le circostanze, gli incontri siano determinanti – nel bene o nel male – a imprimere una direzione all’esistenza delle persone. E, ancor di più, sorge spontaneo chiedersi cosa ne sarebbe stato di Clara, di quella bambina piena di sogni e aspirazioni che abita le prime pagine, se la vita non avesse imposto alla sua storia un inarrestabile declino. E non solo per lei.

Forse se avesse avuto degli amici su cui fare affidamento, una famiglia che lo aspettasse oltre quei pesanti cancelli neri di ferro battuto, una casa in un quartiere rispettabile e un cane da portare a spasso al guinzaglio tutte le mattine, allora forse quella libertà tanto agognata e allo stesso tempo temuta non l’avrebbero terrorizzato in quella maniera. Fatto sta che lui non aveva niente di tutto ciò […].

Sono domande a cui il romanzo non fornisce una risposta, lasciando che sia il lettore a formulare la propria ipotesi. Eppure è presente una traccia, un indizio che non si può trascurare: la scrittura.

Clara scrive, e continua a farlo anche quando la vita sembra sempre più simile a una colpa che a un dono. Se la scrittura sarebbe stata la vocazione che l’avrebbe condotta a una vita migliore, se non più bella in assoluto, non è dato saperlo: l’unica cosa certa è che resta l’unica oasi in cui Clara può sempre trovare sollievo.

La scrittura rende liberi, sembra quindi voler concludere Mattia Bagnato, lasciando che una scintilla di speranza rischiari anche la notte più buia.

Bandito, S. Lagerlöf

“C’è una cosa e non so se sia addirittura l’unica, che le persone civilizzate non possono fare. Uccidono, commettono adulterio, rubano, compiono atrocità, non si trattengono dall’ubriachezza, dallo stupro, dal tradimento, dalla delazione. Sono cose che si fanno tutti i giorni. Saranno anche riprovevoli per qualcuno, però si fanno. Uno dei peccati più antichi dell’umanità non viene più commesso nei paesi civilizzati. Non lo si può fare, perché suscita ribrezzo. Ma io quel peccato l’ho commesso. E sono più abborrito del diavolo.”

È Sven Elversson a parlare, aveva davanti una carriera promettente, dopo essere stato adottato da due coniugi inglesi che gli hanno fatto vedere il mondo, fuori dalla piccola isola di Grimo. Sembrava essersi dimenticato delle sue origini, dei suoi genitori e loro di lui, ma Sven torna a casa, con un’onta indescrivibile. Il peccato che ha commesso è come dice lui stesso un peccato che non si può fare, non più almeno, Sven torna a casa perché è stato accusato di cannibalismo.

I Mari del Nord hanno messo a dura prova la spedizione di cui faceva parte e sembra che tutti abbiano banchettato di un compagno suicida, allora Sven deve scegliere tra una vergogna pubblica in Inghilterra e un nuovo inizio a Grimo, dove nessuno lo conosce e forse le notizie non corrono così veloci, ma si sbagliava. L’isolotto è piccolo e si sa, nel paese la gente mormora e subito la sua storia prende il volo. Nessuno vuole più avere niente a che fare con lui, per quanto si comporti in maniera gentilissima, si umili e si mortifichi, colpevole di un fatto irreparabile, si porta dietro un crimine troppo grande da perdonare. Sven è un personaggio incredibile, muoverebbe alla commozione chiunque, per quanto il cannibalismo sia un atto di un’efferatezza unica, prima chi legge, poi anche i compaesani iniziano a capire l’animo del protagonista. Con Sven è difficile non empatizzare, ma in tutta la storia, nessun personaggio si può biasimare. Selma Lagerlöf in Bandito, crea una piccola comunità, un mondo iper realistico, in cui ognuno non può far a meno che riconoscersi. Ogni personaggio è buono e cattivo, odioso e amabile, tutto e il contrario di tutto, perché l’autrice riesce a creare dei personaggi pensanti che sanno quando è il momento di cambiare idea.

Il cannibalismo ha da sempre affascinato gli uomini che si sono serviti di questo peccato disumano per creare storie dall’impatto incredibile. Così abbiamo Crono che divora i suoi figli e per rimanere sul classico anche Tieste che ignaro mangerà la sua progenie, cuginatagli con amore dal fratello Atreo (GOT non ha inventato nulla), poi abbiamo Ugolino su cui Dante lascia un velo di mistero, non si sa se ha davvero mangiato i nipoti, ma il dubbio è lecito, poi c’è il famigerato Hannibal Lecter raffinatissimo killer e cannibale. Tutti questi personaggi si cibano di altri esseri umani per piacere, per vendetta, per paura, per fame ma subiscono una condanna decisa perché il loro comportamento non può essere difeso. Selma Lagerlöf però riesce così tanto a farci entrare nei pensieri di Sven che a un certo punto anche i lettori si chiedono se davvero un uomo così buono abbia potuto fare un atto simile e il dubbio aumenta sempre di più, lasciando chi legge senza risposta certa.

La storia di Sven è accattivante, quella degli altri personaggi dettagliata e incredibilmente interessante, Selma Lagerlöf mischia sacro e profano, peccati e benedizioni e lo fa con una scrittura fluida e raffinata, in grado di catturare l’attenzione di chi legge anche quando ci troviamo di fronte ai vaneggiamenti religiosi del pastore, una storia fenomenale che è stata scritta nel 1918. Questa per me è stata una grandissima sorpresa, non è uno stile che mi sarei aspettata nel 1918, neanche una narrazione che avrei attribuito a quell’epoca. C’è la guerra sullo sfondo della Svezia, lì gli abitanti vedono corpi arrivare dal mare, ma non ho comunque pensato che Bandito (Iperborea) fosse scritto contemporaneamente alla guerra, mentre in Italia Ungaretti scriveva Mattina.

È stato sorprendente leggere un’opera così moderna e assolutamente originale senza quella patina di antichità, neanche nella traduzione, che si vuole per forza dare ai classici. Selma Lagerlöf ha vinto il Premio Nobel nel 1909, ed è stata la prima donna a vincerlo. Le sue storie sono un intreccio tra i miti, il folklore e la cultura svedese, ha scritto soprattutto libri per bambini ed è stata una suffragetta e una grandissima oppositrice del nazismo. È stato un grandissimo piacere scoprire di lei così, dopo la lettura di un libro che mi ha affascinata. Non guardo mai la vita delle autrici o autori prima di leggere libri di cui non conosco nulla, nè vedo la data di uscita, preferisco rimanere delusa dopo dalle vite e dalle scelte d* artist*, ma stavolta non è stato così, è bellissimo aver incrociato questa scrittrice e ora non posso far altro che recuperare tutto ciò che ha scritto.

Io, lui e Muhammad Ali, R. Jarrar

Chi è già approdato su questi lidi sa che io ho un problema con i racconti. Non so cosa sia, la loro brevità forse? O quella sensazione di non finito che mi ha sempre lasciata perplessa. Stavolta il “non finito” ha lasciato spazio praticamente alla disperazione. I racconti di Randa Jarrar, contenuti in Io, lui e Muhammad Ali, con la traduzione di Giorgia Sallusti, editi da Racconti, sono veramente stupefacenti e io ancora, dopo giorni dalla fine della lettura, mi domando come sta la bambina che è stata investita? E la relazione messa in crisi dal marinaio è ancora in piedi? La spia alata che fine ha fatto?

Ogni personaggio che appare in questi racconti ha il potere di fissarsi nella memoria, è per questo che sono dispiaciuta. Vorrei leggere di più di ognunǝ di loro, se Jarrar facesse un romanzo per ogni protagonista dei suoi racconti li leggerei tutti, immediatamente. I personaggi sono vari: donne, uomini, bambinз, animali, tuttз legati tra loro dall’Egitto, c’è chi lì ci è natǝ, chi ci ritorna, chi ha vissuto ogni suo cambiamento; tuttз chi più, chi meno hanno dei conti in sospeso con questa terra, a volte estremamente benevola, altre più somigliante alla matrigna leopardiana. L’Egitto di Jarrar è una terra che dà, che accoglie, ma che non riesce mai davvero a trasformarsi: è fissa nei suoi modi, sembra giocare col destino dei suoi abitanti, dare fortuna a chi ne ha già da vendere e affossare chi è già sul lastrico.

Ad accomunare le persone che compaiono nei racconti c’è anche un altro tema ricorrente: la riflessione sulla condizione femminile. Ci sono donne emancipate, donne che invece non riescono a rompere con la tradizione, donne che hanno fatto della ribellione il proprio mantra, ma tutte sono consapevoli di vivere in una situazione di subalternità. In ognuna di loro c’è una visione chiara e nitida del mondo patriarcale che ci circonda, di una prigione mascherata da regole religiose e del buon costume. In alcuni punti la scrittura di Randa Jarrar mi ha fatto pensare ad alcuni passaggi di Elena Ferrante quando la Lenù de L’amica geniale si rende conto che le donne sono plasmate dagli uomini, i loro sguardi ci esaminano di continuo, le loro leggi non hanno lasciato spazio a nessuna.

“Pensaci” disse quella mattina, dando inizio alla giornata. “Chi ha dato il nome ai figli nella tua famiglia?” Mio padre. Lo dissi a Mansoura. Lei annuì e mi disse: “Come pensavo. Parte tutto con il modo in cui veniamo chiamate. Dobbiamo incoraggiare le donne a dare il nome ai figli.”

Anche se le riflessioni a cui arrivano le protagoniste delle due autrici sono molto simili, Randa Jarrar non dà mai spazio ai moralismi. Non ci sono spiegoni, né lamentele sterili, c’è solo una grande consapevolezza a cui si arriva attraverso un’analisi personale della propria condizione. Le donne di Io, lui e Muhammad Ali sono reali, fresche, leggere. Nessuna di noi è approdata alla verità sulla propria condizione, sulle discriminazioni, con un’illuminazione divina, le vie di Damasco per noi non sono mai state valicabili. Noi siamo giunte alla consapevolezza di noi stesse attraverso una stratificazione di conoscenze e di esperienze e sappiamo che ognuna di noi ha avuto un percorso diverso, per questo non ci ergiamo a paladine della verità e a giudicare le altre (questa è più una speranza che una verità, comunque) e così fanno anche le donne descritte da Jarrar. Mi rivedo tanto in loro, in alcune delle loro esperienze, in alcuni dei loro percorsi di crescita.

Non c’è nessuna pesantezza nei profili tracciati dall’autrice, c’è solo una grande voglia di raccontare la realtà. Conosciamo il mondo in cui viviamo, sappiamo che dobbiamo fare il doppio del sacrificio, ma dobbiamo anche viverlo questo mondo, con leggerezza, con simpatia, trattando anche situazioni serie e delicate con ironia e come in questo caso, coinvolgendo chi legge. Questo è il grande pregio di questo libro, si arriva a verità importantissime a riflessioni rivelatrici, ma in un modo effettivamente realistico e senza bacchettoneria, ricordando che oltre l’infinità di problemi a cui ci costringe questo mondo, c’è anche qualcosa che vale la pena di essere vissuto con tranquillità.

Insomma: magnativell’ n’emozione.

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