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"Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la lettura è un'immortalità all'indietro."

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Racconti di lettura

Guida il tuo carro sulle ossa dei morti – O. Tokarczuk

Olga Tokarczuk è una psicologa e grazie a questo ci regala un personaggio assolutamente memorabile, di grandissima caratterizzazione, protagonista di Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, pubblicato in Polonia nel 2009. Nel 2018 vince il premio Nobel per la Letteratura nel 2018: «per un’immaginazione narrativa che, con passione enciclopedica, rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita». Il film Pokot di Agnieszka Holland è stato tratto dal romanzo Guida il tuo carro sulle ossa dei morti ed ha vinto Premio Alfred Bauer.

Janina Duszejko è un’appassionata di astrologia. È convinta che il calcolo preciso e puntuale delle posizioni dei pianeti in concomitanza della nascita potrebbe addirittura dare segnali sulla morte delle persone. Deve studiare quindi ogni segno, ogni transito per districare i complicati omicidi che stanno avvenendo in città. Oltre ad essere una studiosa di astrologia, è anche una maestra d’inglese e si vede, insieme ad uno studente ogni settimana per tradurre Blake, Blake sarà una presenza fissa in questo romanzo a partire dal titolo, che è infatti tratto da un verso di “Proverbi infernali”.

Luftzug è il nome del villaggio, che sorge su un Altipiano che si trova tra Polonia e Repubblica Ceca, qui prima Piede Grande, come lo chiama lei, abituata a dare un nome alternativo alle persone perché non sempre i nomi affibbiatici si conformano perfettamente all’essenza, poi altri uomini moriranno in circostanze misteriose e Janina non riesce a pensare ad altro: e se fossero stati gli Animali? Tutte le vittime erano infatti cacciatori spietati, forse la fauna dell’Altopiano sta pensando ad una vendetta, vuole riprendere il suo posto e non essere semplicemente cacciagione.

Janina è arrabbiata con questa gente che non si rende conto di sfruttare la natura fino all’inverosimile, non capisce quale sia il motivo di tanta crudeltà nei confronti degli animali. Sembra però così interessata a fare chiarezza sull’accaduto, lei non si fermerà davanti a nulla: viene e va dalla polizia, deposizioni, denunce, continua a voler mettere in guardia tutti che gli astri, avevano predetto tutto.

“Mi commuovono le foto dal satellite e la curvatura della Terra. Ma allora è vero che viviamo sulla superficie di una sfera, esposti allo sguardo dei pianeti, abbandonati in un grande vuoto dove, dopo la caduta, la luce si è frantumata in piccoli frammenti e dispersa? È vero. Ce lo dovrebbero ricordare ogni giorno, perché ce lo scordiamo. Crediamo di essere liberi, e che Dio ci perdonerà. Personalmente la penso in modo diverso. Ogni azione trasformata in minute vibrazioni di fotoni alla fine si metterà in viaggio verso il cosmo, come un film, e i pianeti lo guarderanno fino alla fine del mondo.”

Janina è per tutti una vecchia pazza, non si può dare credibilità a una così, non si può davvero pensare che gli animali possano mettere su tutto questo, ma chi le sta più vicino inizia a capire, sa che Janina non è assolutamente solo una vecchia pazza.

Guida il tuo carro sulle ossa dei morti è un libro estremamente coinvolgente, attraverso una trama intricata e ben costruita, ci sono riflessioni profonde sul rapporto tra l’uomo e gli animali e anche sull’astrologia e le sue influenze. Tutto è filtrato dalla mente della protagonista, che si arrovella su ciò che sta accadendo, ma cerca di nascondere a tutti, lettori compresi, ciò che sta davvero facendo. I pensieri di Janina, le sue domande sulla crudeltà umana e sull’impatto dell’uomo sul mondo che lo circonda sono quanto mai attuali.

Althénopis – F. Ramondino

Leggere Althénopis è stato folgorante. Già dalle primissime pagine sono stata rapita dalla musicalità, dalla potenza della scrittura di Ramondino, così immensa già in questo suo romanzo d’esordio. Appena mi sono addentrata nella vita di questa bambina, protagonista del romanzo ho avuto un desiderio: aver scritto questo libro.
Una prosa semplice, una voce narrante infantile ma complessa, una poetica caratterizzata dall’assenza di un’unica lingua. Ramondino utilizza l’italiano accanto al dialetto, ma anche una serie di ulteriori suggestioni linguistiche derivanti dalla vita ricca di spostamenti dell’autrice, che si leggano anche come assenza di un’unica patria, di un’unica casa, cosa per altro sottolineata in alcune parti del romanzo.

La passione per la scrittura della Ramondino le viene inculcata dalla nonna. La figura della nonna è emblematica nel suo romanzo, che descrive una cosmogonia familiare, di linea totalmente femminile. Partendo dalla descrizione della sua Nonna, una tipica incarnazione della Grande Madre Mediterranea: irrequieta, iperattiva, sempre a fare strani intrugli, parlando dialetto e cercando in continuazione compagnia.
Poi la Madre, fluttuante in un mondo parallelo di letteratura ed emicrania, insofferente di fronte a quel paesaggio composto da una marea di poveri e vecchi, insofferente anche verso la sua di madre, che dava ai figli un esempio non alto borghese come lei avrebbe voluto. In fondo l’educazione della protagonista e dei suoi fratelli era eterogenea e disordinata, ma sicuramente non povera.

«E poi povera donna, vergine sposa trentaseienne, l’ebbe la sua settima vita; e da quella natura minerale e vegetale entrò nella natura sanguigna, umorale e sudorosa degli amplessi, dei parti, del latte e delle ragadi. Sicché lei, nata da ascendenti vegetali, al cui orecchio si incurvava il capelvenere, delle gambe di canna, nei cui occhi si riflettevano l’azzurro dei fiori, il grigio finissimo del muschio e perfino a volte lo smeraldo ghiacciato del male, era piombata nel terzo regno: il regno zoologico. E giù il sangue, il latte, gli umori, i sudori. E su tutto, sovrastanti i «pensieri».

[…]

A me pareva che la mamma, chi sa quando, forse quando eravamo partiti dalla bella isola, o forse molto prima, quando ancora non ero nata, si fosse messa tra parentesi. La chiudevano anche come due parentesi i muri di quella casa, che parevano fatti di tempo: da una parte il muro del giorno da cui eravamo arrivati, dall’altro quello del giorno in cui saremmo partiti. Ma ogni tanto ne usciva.»


Poi c’è lei, la protagonista, la Bambina che scopre il mondo con i suoi compagni, che con occhi curiosi e perspicaci dipinge tutti i personaggi che ha incontrato nella sua vita, tutti i luoghi tra la Costiera e Althenopis, le case, le ville, gli scorci. Descrive il suo rapporto con gli altri bambini, raccontando alla perfezione lo stato in cui versavano le famiglie napoletane, guardando alla sua sempre come a un’eccezione.

Natalia Ginzburg definì la sua infanzia e quello che traspare da Althénopis come: «un’infanzia pronta a mettere radici ovunque, ma tuttavia consapevole del fatto che le radici sono sempre fragili, che nei giorni più limpidi e solari si nascondono insidie, che ogni radioso paesaggio può di colpo sparire».

Sia la protagonista di Althenopis che la Ramondino stessa, hanno avuto una formazione itinerante. L’autrice viaggia in tutta Europa durante la sua infanzia insieme alla sua famiglia, seguendo il padre diplomatico e anche successivamente la sua vita sarà caratterizzata da moltissimi spostamenti. Questi viaggi lasciano dentro di lei dei solchi profondi, stilistici e linguistici, che si possono appurare in alcune delle sue opere.

Dai suoi viaggi in Spagna, ricorda il benessere e la villa di Son Batle e anche qui un immenso personaggio femminile che è la balia Dida: «regina di tutti, servi e padroni, piante e animali, stanze e patios, stelle e pianeti» nel suo Guerra d’infanzia e di Spagna. Ma è proprio nella sua reale guerra d’infanzia nel soggiorno spagnolo, in cui inizia l’istruzione linguistica: qui impara l’italiano dei genitori, il castigliano del collegio e il maiorchino della servitù, dialetto censurato dal regime franchista, ma che lei cercherà di utilizzare e soprattutto porterà nel cuore e nel suo libro.

Un altro viaggio sarà poi importante per lei e diventerà il fulcro di un altro libro che è Taccuino tedesco. Ramondino si trova in Germania per seguire la figlia Livia, presa alla scuola di danza diretta da Pina Bausch a Essen. Qui prenderà nota durante il suo soggiorno dei cambiamenti della società tedesca, in particolar modo dopo la caduta del Muro di Berlino. In realtà il tedesco non è un nuovo idioma, anche questo era penetrato nella sua vita in giovane età, quando alla morte del padre, dopo una serie di peregrinazioni di casa in casa, fugge dalla sua Napoli e da sua madre, seguendo un cugino a Francoforte.

«Althénopis è un nome inventato per Napoli. Non ho sentito di chiamarla col suo nome, e ho inventato questo pastiche. In una nota scherzosa del libro dico che Althénopis con una commissione di radici greche e tedesche significa occhio di vecchia, come l’avrebbero chiamata i tedeschi durante l’occupazione vedendola così imbruttita, rispetto ai racconti di Ghoethe o Mozart. C’è anche la possibilità, in quella nota, che l’interpretazione sia occhio che risana, nome che indica appunto la relazione con la città materna: Napoli per i suoi abitanti è una grande madre.» È con queste parole che Ramondino descrive il titolo del suo primo romanzo, in cui viene descritta in maniera formidabile proprio l’occhio di vecchia, con la sua popolazione malconcia, turbata dalla Guerra, decadente, da una parte inospitale, ma dall’altra incantatrice.

C’è un profondo ossimoro che solca le pagine di Althénopis: nonostante si tratta della visione di una bambina poi adolescente, che descrive un mondo subalterno, traviato dalle difficoltà, lo stile e il linguaggio sono voluttuosi e opulenti. Le descrizioni sono cariche, dettagliate, avvolgenti. Le parole formano una musicalità nuova e originale, data comunque dalla commistione di italiano e dialetto. La grande ricchezza di questo romanzo è sicuramente la numerosissima mole di note, che sono usate da Ramondino in modo inusuale: ampliano le caratteristiche dei personaggi, si soffermano su alcune parole specifiche per spiegare al lettore perché sono state scelte e collocate proprio in quel punto del romanzo.
Tra quelle che ho amato di più c’è sicuramente la nota che spiega e definisce il termine ruoto:

«Teglia di rame o alluminio di forma rotonda. È un vocabolo solare e festoso che andrebbe introdotto nel dizionario italiano. Immeschinisce il cibo che esce dal forno la parola «teglia», che andrebbe però conservata per quei pasticci al forno di sapore intimistico a base di burro e di besciamella; è da escludere nel modo più assoluto invece per timballi di maccheroni, le pizze al pomodoro, le parmigiane, le alici al gratin, le pastiere, le pizze di scarola e di ricotta.»

Nella narrazione in Althénopis Ramondino fa uso sia della prima che della terza persona, in particolare la terza persona viene utilizzata come una sorta di schermo dal dolore, andando così a scrivere mantenendo un certo distacco, pur facendo sempre incursioni in prima e viva persona nelle note.

È stato sicuramente il più bel libro che io abbia letto quest’anno, ed è diventato dalle primissime pagine uno dei miei libri del cuore, accompagnato dal fatto che la sua autrice è stata una donna straordinaria: non solo una grandissima scrittrice, ma anche un’attivista, che si è sempre battuta per i diritti delle persone non privilegiate.

Un uomo solo – C. Isherwood.

Un uomo solo è un romanzo di Christopher Isherwood pubblicato nel 1964. Isherwood nasce in Inghilterra, a scuola incontra il poeta Wystan Hugh Auden, che poi diventerà suo amante e amico carissimo, con cui si trasferì negli Stati Uniti nel 1939, dopo una parentesi a Berlino. Negli Stati Uniti si avvicinò alla mistica indiana, diventando di fatto induista. Dal 1953 fino alla morte, Isherwood ha convissuto col suo compagno, il pittore e ritrattista Don Bachardy che ha anche illustrato con ritratti e disegni alcuni libri del compagno. In Italia questo romanzo viene stampato per la prima volta nel 1981 con la traduzione di Dario Villa, edito da Guanda; è invece ora edito da Adelphi.

Un uomo solo è il racconto di una giornata normale di un anziano professore che vive in California, che deve fare i conti con se stesso, con i suoi studenti, e con la recente perdita. Il romanzo ha ispirato il film omonimo diretto da Tom Ford e interpretato da Colin Firth. Da questa quasi banale, quotidianità emergono due enormi fattori: il tema della morte del compagno e l’ impossibilità della rielaborazione del lutto.

All’inizio sembra che George non riesca a rielaborare il lutto perché è difficile esternarlo. Per raccontare l’enorme sofferenza che lo piagava, avrebbe dovuto raccontare anche della felicissima relazione tra lui e Jim, che erano di facciata, solo due amici che condividevano un appartamento; anche se gli sfacciati vicini, gli amici e i più intimi di George sapevano che in realtà erano una coppia.
Non è per un problema di comunicazione o rivelazione che George non esterna la sua sofferenza, ma perché il lutto non si esterna mai davvero.

Quando qualcosa viene strappato in modo così repentino e inaspettato, all’inizio non ci si fa caso. Ci vuole tempo prima che quella specifica mancanza faccia breccia nella routine, nella perfezione del mondo costruito, nella vita vera.
Il problema si manifesta quando ci si rende conto della mancanza, quando si realizza, che la persona con cui si condividevano sogni, speranze, progetti, non può più adempiere alla nostra felicità. Assaliti da ogni tipo di domanda, di rabbia ceca, di dolore, si va avanti, con un fardello incomunicabile. George rimane chiuso nella sua casa e nella sua routine, condividendo il lutto con le sue quattro mura. L’amica Charlotte lo assiste, lo ascolta, ma non può davvero alleviare quella sofferenza.

George è un uomo solo e lo è per svariati motivi: è straniero, intellettuale, omosessuale, vecchio, perché ha perso il suo compagno, perché in fondo ha scelto così; ma sicuramente non è solo perché non ha nessuno con cui parlare del suo lutto. Pur essendo socievole, apprezzato, pur essendo il più amichevole degli uomini, vivere una mancanza del genere è un atto privato. Basta un nulla: un suono, una parola, un’immagine a far rivivere tutto il bene e poi tutto il male.

La scrittura di Isherwood è secca, caustica, ridotta all’osso, perché George deve ridurre all’osso i suoi pensieri: ogni stimolo potrebbe essere pericoloso, ogni minuzia potrebbe riportare il pensiero a Jim e riaprire il vortice di sofferenza. Nelle poche pagine di questo romanzo si parla poco di Jim, poco del suo incidente, si parla molto di George e Isherwood mostra e descrive tutti i tentativi, le scappatoie mentali che il professore crea per evadere da quel pensiero che rimane assordante e sullo sfondo, che investe di nuovo, tutto, quando meno ce lo si aspetta. Deve mantenersi saldo, ancorarsi alla strana maschera che si è creato, tenersi ai muri della casa, visualizzare e vivere un nuovo spazio senza Jim. Diventa allora necessario mantenersi occupati in tutto ciò che non richiede la presenza di Jim: programmare le lezioni, prendere l’autostrada, fare il bagno nell’oceano con uno studente. Ogni cosa che riempie il cervello di altro fuori da Jim è vita.

Quella di Isherwood è sicuramente solo una delle rappresentazioni in cui il lutto viene affrontato dal genere umano, ma ritengo sia una di quelle più veritiere. Il lutto non è al centro del libro, al centro del libro c’è George che tenta di far finta di niente, che vuole riprendere dove la vita di Jim si è interrotta, ma in fondo è al centro dei suoi pensieri.

“Immaginate due persone che, in questo spazio ridotto, vivano assieme ogni giorno, cucinino gomito a gomito sugli stessi fornelletti, si comprimano sui gradini angusti. Si radano di fronte allo stesso minuscolo specchio, continuino a toccarsi, a urtarsi, a cozzare l’uno contro il corpo dell’altro, per sbaglio o no, sensualmente, aggressivamente, maldestramente, impazientemente, in collera o in amore – immaginate che profonde, ma invisibili tracce devono lasciarsi alle spalle. L’ingresso della cucina è troppo stretto. Due persone di fretta, con i piatti in mano, sono perennemente destinate a scontrarsi. Ed è lì che quasi tutte le mattine, giunto in fondo alla scale, George prova la sensazione di trovarsi all’improvviso su un limitare scosceso, frastagliato, brutalmente interrotto – come se il sentiero fosse scomparso sotto una frana. È lì che si arresta di colpo, turbato dalla novità, e, come la prima volta, capisce che Jim è morto.”

George è solo perché il suo dolore non può essere recepito dagli altri: anche chi ha sperimentato il lutto (e chi non lo ha fatto nella sua vita), non ne ha mai sperimentato uno così importante.

Allora ogni dolore, ogni sofferenza, ogni problema viene messo a paragone a quell’enorme mole di dolore e tutto, sembra insignificante al confronto. Il dolore degli altri, i nostri stessi problemi misurati alla perdita del partner non reggono il confronto. La vita è cambiata, perché nella nostra routine è entrata un’ombra, e delle volte ci farà sorridere, perché ci ricorda dolcezza, ma il più delle volte porterà tormento perché quella dolcezza non sarà mai più. E si è soli perché forse il dolore, quel dolore provocato proprio da quella morte è solo nostro, ed è l’unica cosa che ci lega a quell’amore.

Anche il dolore può essere custodito, necessario e forse a quel dolore si deve rimanere fedeli perché è l’unico appiglio per far vivere l’altro, perché attraverso quel dolore glorifichiamo e ricordiamo la persona che ci è stata strappata. E quindi perché rendere tutto questo comunicabile? Non si può dividere un amore, non si può dividere un dolore.

La ragazza del convenience store – Murata Sayaka

Un convenience store (termine inglese che significa “negozio di comodità”), conosciuto anche come konbini (コンビニ) dall’abbreviazione in lingua giapponese della traslitterazione dall’inglese konbiniensu sutoa (コンビニエンスストア), è un pubblico esercizio di dimensioni medio-piccole in cui viene effettuata la vendita al dettaglio di una larga gamma di prodotti. In molti dei paesi in cui questo tipo di negozio di vicinato si è diffuso, i punti vendita sono molto frequenti, rimangono aperti tutto l’anno compresi i giorni festivi e spesso offrono un servizio ad orario continuato 24 ore al giorno. I prodotti principali sono quelli alimentari e le sigarette, ma si possono trovare anche generi di abbigliamento, ricariche telefoniche, quotidiani, libri, giocattoli, CD audio e video, cosmetici ecc. (via Wikipedia)

Keiko è una ragazza, tranquilla, solitaria, che ha trovato il suo posto nel mondo in un konbini. Lei ha degli schemi mentali, che si sposano alla perfezione con quelli del market. Lei ha trovato lì la sua dimensione, ma far accettare questa cosa alla sua famiglia e alla società è difficile.
Perché ancora non è sposata? Perché lavora ad un konbini ed ha sempre solo lavorato lì? Perché non si trova altro da fare?

A tutte queste domande Keiko risponde montando un’impalcatura di menzogne, non sta tanto bene, problemi di salute, il lavoro al konbini è congeniale alla sua malattia. Ma di malattie non ce ne sono, c’è solo Keiko che sente di essere un po’ diversa dagli altri o meglio, percepisce che gli altri la sentono diversa da loro, visto che lei nella sua vita ci sta benissimo. È stato così da subito, già da bambina Keiko preoccupava chi le stava intorno.

“La signora seduta al suo fianco mi fissò a bocca aperta, gli occhi e le narici spalancati, con un’espressione così strampalata che per poco non scoppiai a ridere. Starà forse pensando che un uccellino non basterà a sfamare tre o quattro persone?, mi chiesi, visto che continuava a fissarmi le mani.
“Provo a catturarne altri?” mi venne spontaneo domandare, voltandomi verso due o tre passerotti che saltellavano là intorno.
“Keiko, sei impazzita?” gridò mia madre, in tono di rimprovero. “È nostro dovere seppellire questo uccellino. Guarda, le tue amichette stanno piangendo. È una cosa triste quando muove qualcuno, questo povero passerotto non ti fa pena?”
“Mica tanto… Ormai è morto, no?”

Ad un certo punto Keiko cerca di mettere fine a tutte queste continue domande sulla sua vita, sulla sua carriera, che poi neanche capisce cosa importa alla gente della sua vita? Murata Sayaka attraverso la storia di Keiko traccia i limiti della normalità, anzi, fa capire che la normalità non esiste, è un concetto che intrappola la gente. Keiko vorrebbe vivere la sua vita al konbini in assoluta tranquillità, ma la pressione sociale non glielo permette. Anche Shiraha, suo collega e poi coinquilino, che secondo la mia personale lettura incarna perfettamente un incel, non fa altro che ripeterle che è stramba, come lo è lui stesso: adulti senza aspirazioni, famiglia, guadagni.

Il matrimonio sembra essere il traguardo da raggiungere per ogni donna e Keiko che di anni ne ha 36 e di mariti neanche uno, è un’anomalia. In 160 pagine è concentrato tutto lo stupore della povera Keiko nei confronti di chi la osserva e chi non riesce ad accettare che ci possono essere tanti modi di vivere le proprie vite.

“Gli altri non si fanno scrupoli e perdono ogni freno davanti a tutto ciò che esce fuori dall’ordinario, pretendono delle spiegazioni e sono convinti di avere il diritto di sapere tutto. Lo trovo assurdo, di un’arroganza esasperante. Certe volte mi verrebbe voglia di prendere una pala e suonarla in testa a chiunque mi trovi di fronte, come quella volta alla scuola elementare. Ma è meglio non farne parola con mia sorella: in passato, tutte le volte che ho tirato in ballo l’argomento, si è preoccupata da morire e le sono venute le lacrime agli occhi. È sempre stata buona e gentile con me, non voglio farla deprimere e metterla di cattivo umore. Preferisco cambiare subito argomento e passare a qualcosa di più leggero.”

È un libro che ho letto in pochissimo tempo, perché entrare nei pensieri di Keiko è molto interessante. Pur raccontando una vita tranquilla, senza colpi di scena o chissà quali intrighi, fa riflettere molto, sul concetto di normalità, ma soprattutto su come ci poniamo nei confronti degli altri. Ogni tanto, anzi, forse sempre, è il caso di stare al nostro posto, tranquilli, senza per forza voler trovare una spiegazione a comportamenti diversi dai nostri. Sono veramente indispensabili tutte quelle domande che poniamo con aria giudicante a chi non sta vivendo una vita nello stesso modo in cui facciamo noi? È davvero necessario importunare la gente, anche amici, anzi soprattutto amici, con domande tipo: quando ti sposi? E i figli? E il fidanzatino? E la laurea? E il lavoro?
Chiedo per un’amica eh.

La Dragunera, L. Barbarino

Opera prima di Linda Barbarino, La Dragunera è uscita per Il Saggiatore poco prima del lockdown ed ha conquistato tutti.

Ci troviamo in un paesino della Sicilia, nella casa della Sciandra, la prostituta del paese, conosciamo lei e Paolo i due personaggi che incontreremo maggiormente nell’economia della storia.
Rosa Sciandra è orfana di madre e di padre, il suo unico obbiettivo era quello di riscattare la sua casa dell’infanzia, vivere tranquilla, attorniata da ricordi piacevoli, questo prima di conoscere Paolo. Assennato, lavoratore, concreto, Paolo risveglia in Rosa i sentimenti più caldi e amorevoli, è un cliente, ma non è come gli altri, potrebbe fare di Rosa ciò che vuole, lei pende dalle sue labbra, vorrebbe sposarlo, e anche lui nutre per la Sciandra sentimenti profondi, ma non si potrebbe mai mettere con una prostituta, infangando il nome della famiglia, mica è tonto come suo fratello, lui.

Biagio della famiglia non è che se ne sia curato poi tanto, dal lavoro poi è meglio tenersi alla larga, ma per donna Angelina figlio è Paolo e figlio è pure Biagio, non importa se si è sposato la magara, la Dragunera.
La cognata non è come le sue antenate, streghe, perfide che hanno provocato morte e distruzione, indiavolate donne votate a Satana, lei è diversa dice Angelina o almeno cerca di convincersene per rivedere la famiglia unita.

La Dragunera è nella tradizione siciliana la portatrice di tempesta. Figura leggendaria e malevola con il suo potere può distruggere i raccolti e così anche le famiglie. La Dragunera è una figura vendicativa che si trasforma in una “magara” o “dragonessa”, da cui Dragunera, che cerca di esprimere la sua vendetta verso singoli o città che le hanno fatto un torto. Scuoteva alberi e case, con il suo vento demoniaco e solo una donna di casa dotata di un falcetto per sciogliere i venti avrebbe potuto contrastarla, spezzando il maleficio, ma nel mondo della Barbarino nessuna donna di casa aizzerà il falcetto contro la Dragunera.

La Dragunera è in sostanza il male, vendicativo e ossessivo fatto donna. In Sicilia è posseduta dal vento, ma in altre zone del Sud Italia è ugualmente presente con caratteristiche simili. Penso alla Janare, streghe malvage, spesso sterili (in effetti anche la Dragunera non ha bambini), invidiose della felicità altrui, distruttive, portatrici di scompiglio. Nel romanzo della Barbarino è illustrata efficacemente la repulsione che la gente prova verso queste strane donne, tacciate di malvagità, spesso senza che loro abbiano davvero fatto qualcosa. Isteriche, represse, ma sessualmente (troppo) vivaci, ammaliatrici, donne da evitare o semplicemente donne troppo libere per un luogo estremamente patriarcale e conservatore. Ancora oggi strega è colei che va controcorrente, che pensa in modo autonomo, slegata dalla realtà e dalla contemporaneità in cui vive, ma non per questo meno presente a sé stessa delle altre persone. Sono tante le donne accomunate da questo stesso destino, che suscitano in coloro che le conoscono sentimenti repulsivi: janare, dragunere, magare, streghe, tarantate. Ma tutte loro, cercano vendetta per una vita in cui sono stata additata come qualcosa che non sono davvero, per distruggere le vite di chi le hanno distrutte o sono realmente spiriti maligni assetato di sangue?

Tutti i personaggi sono vivaci, calorosi, parlano, si scontrano, hanno emozioni forti, pulsano di passione, tutti tranne la Dragunera. Lei non parla mai, irrompe sulla scena quando meno se lo aspettano lettori e altri personaggi. Come il vento di cui porta il nome, forte e malvagio entra nelle situazioni calamitando l’attenzione su di lei, amica dell’oscurità, bella come nessuna donna può esserlo mai, ammaliatrice, strega.
Con i suoi capelli corvini e i suoi occhi magnetici che bisogno c’è di parlare? Riesce ad accalappiare gli uomini: lega a sé sia Biagio, che riesce a sposare, sia Paolo in modo subdolo, entrandogli dentro, facendolo bruciare di bramosia per entrare nella famiglia, per divorare il bene, per diventare possidente.

Attraverso un linguaggio carico di forme dialettali, con una veracità e una passionalità che solo il dialetto può dare, si snoda la storia con una grandissima intensità e personaggi davvero memorabili. Non ci sono negativi assoluti, anche la Dragunera nella sua ferinità ammaliatrice ha qualcosa di positivo, è beffarda, sensuale, può sembrare perfida, ma in fondo può essere un modo per difendersi da una comunità che la addita come malvagia strega, che di lei non riesce neanche a sentire parlare. Inutile dire che la persona con cui si riesce a empatizzare maggiormente è senza dubbio Rosa Sciandra, passionale anche lei, ma sa quando farsi da parte, vuole solo il bene del suo Paolo e quando capisce che il problema non è la moglie del suo prediletto, ma sua cognata decide di fare un gesto estremo, perché mai potrebbe vedere l’anima del suo amato divorata dal male.

Il clima è sospeso, ma denso, ricco, succede qualcosa sempre, la narrazione è veloce e salta dal passato al presente, da Biagio a Paolo, da Rosa a Don Tano, da Donna Angelina a Nunziatina, tutti soggiogati però dalla presenza che aleggia della Dragunera, l’unica sempiterna protagonista.

Un libro rapido ma evocativo, intenso e magmatico, una lettura davvero interessante che riporta alle magiche vicende dei tempi passati intrisi di superstizione, soprannaturale e passione.

Brevemente risplendiamo sulla terra – O. Vuong

È lento, poi veloce, accelera portandoti al culmine di una situazione, poi ti lascia andare. Annaspi, cercando di capire, ma forse questo non è un libro che deve essere capito. Brevemente risplendiamo sulla terra, esordio (nel romanzo) di Ocean Vuong, La nave di Teseo, è un libro che deve essere sentito. Fino a che non entriamo nell’ottica dell’autore, fino a che non carpiamo il ritmo, l’andamento con cui proseguire nella storia, è come se non stessimo leggendo davvero.

“Ehi”, ha chiesto mezzo addormentato, “chi eri tu prima di incontrarmi?”
“Una persona che stava affogando, mi sa.”
Una pausa. “E adesso?” ha sussurrato, già pronto a scomparire.
Ci ho pensato un secondo: “Adesso sono l’acqua.”

Ocean Vuong nasce come poeta e questo lo si nota dalla prima parola. Un linguaggio prezioso e opulento avvolge piccoli quadri della vita di casa Vuong. “Quella volta che…” e parte, ricordando screzi, scaramucce, fatterelli insignificanti, accanto a enormi prove della vita, accanto all’amore, alla violenza, è tutto insieme, amalgamato in una strana lettera poetica.

Little Dog, scrive a sua madre. Le scrive una lettera lunghissima e frastagliata in cui è contenuto tutto: ricordi, rivelazioni, segreti, tormenti. Little Dog scrive con la consapevolezza che sua madre non leggerà la lettera. Non potrebbe, è analfabeta, le scrive in inglese a posta per rendere le cose più complesse. Little Dog è il figlio di Rose, una donna vietnamita, che insieme alla madre si è stabilita in America, porta con sé profondi disturbi legati alla guerra. Anche la vita di Little Dog è una guerra, descrive piccole esplosioni, fa detonare informazioni enormi che non riesce più a contenere che vorrebbe condividere, ma non fino in fondo perché li lascia custodire alla scrittura, alle parole che non leggerà nessuno.

“Chi si perderà nella storia che raccontiamo a noi stessi? Chi si perderà dentro di noi? Dopotutto raccontare una storia è come ingoiare. Aprire la bocca per parlare significa lasciare solo le ossa, che restano non dette.”

Dall’inizio alla fine, vediamo che la scrittura per Little Dog è catarsi, liberazione, un modo per scaricare fardelli, per sfogarsi finalmente dopo tanta sofferenza. La vita domestica di Little Dog è controllata dalle donne: sua madre e l’odore di centro estetico che si porta dietro e sua nonna, anziana e protettiva, ma la vita privata è caratterizzata da uomini, a partire dai compagni di scuola e poi…Trevor. Porta con sé il segreto di un amore, ma anche il dolore di una vita sentita diversa dagli altri.

“Quel giorno ho imparato quanto può essere pericoloso un colore. Che un ragazzino poteva essere spazzato via da quella sfumatura e costretto a prendere atto della sua violazione. Anche se il colore non è niente senza che la luce lo riveli, quel niente ha delle leggi, e un bambino su una bicicletta rosa deve sapere sopra ogni cosa come funziona la legge di gravità.”

Non è una lettura semplice. Né per il ritmo, né per il linguaggio, né per la trama. Ma è sicuramente una lettura intensa, emozionante, rinfrancante soprattutto a livello stilistico. I giri di parole, la costruzione complessa delle frasi, il lessico ricercatissimo rendono questo romanzo un vero gioiello. Anche il più semplice dei fatti diventa prezioso grazie alle parole forgiate da Vuong. In qualche modo o per la storia travagliata o per il mix di generi a cui il romanzo attinge o per lo stile, questo libro vi travolgerà.

Sono a pezzi, diceva il messaggio. A pezzi, era l’unica cosa che riuscivo a trattenere, lì sulla mia sedia, perdere una persona ci rende più di quello che siamo, divide noi vivi in tanti frammenti.”

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