Due amiche che si chiamano Carla, hanno lo stesso segno zodiacale, amano le stesse cose tra cui i fumetti, non potevano non decidere di fare qualcosa insieme. Da qui è nata Carle vs, la nostra rubrica di interviste doppie a fumettist* per farvi scoprire e leggere di nuovi fumetti.
Questo mese scopriamo insieme Fehida, nuova uscita della collana Cosmica di Minimum Fax, di Tommaso Renzoni e Raffaele Sorrentino. Questo fumetto parla di faide, di criminalità organizzata e di persone che non riescono a scappare dalla realtà delle organizzazioni criminali, da una imperitura sete di vendetta che travalica spazio e tempo.
In questa occasione abbiamo fatto qualche domanda a Tommaso Renzoni, per scoprire le risposte di Raffaele Sorrentino, dovete viaggiare come sempre verso una banda di cefali.

- Ciao Tommaso e benvenuto su Tararabundidee. La prima domanda della nostra intervista doppia è ormai di rito. Com’è nata la collaborazione con Raffaele e come avete lavorato insieme a questo graphic novel?
È stata colpa di Carlotta Colarieti! Carlotta mi ha chiamato per lavorare a questo graphic novel, e mentre scrivevo il soggetto lei mi ha proposto il suo nome, e quando Raffaele si è innamorato del progetto abbiamo iniziato una collaborazione a quattro mani su tutto. Anche adesso io e Raffaele ci scherziamo su, non c’è una pagina su cui riusciamo a dire “questo è mio, questo è suo”!
- Fehida parla di criminalità organizzata, in particolare di ‘ndrangheta, è liberamente ispirato alla faida di San Luca degli anni ‘90 ed è ambientato tra l’Italia e la Germania. Dove nasce l’idea di raccontare la ‘ndrangheta calabrese in un fumetto e come mai proprio questo periodo?
L’idea era di arricchire la collana Cosmica con un testo che parlasse di una vicenda di cronaca, e la scelta è caduta su quei fatti ispirandosi ad un altro libro di Minimum Fax che è “Statale 106” di Antonio Talia. Io però in quella storia ci vedevo in filigrana un racconto di libertà e di liberazione dai modelli di un maschile aggressivo e patriarcale. Raffaele condivide con me questa sensibilità e d’accordo con lui ci siamo allontanati dai fatti reali per far vivere un racconto che potesse parlare ai maschi di oggi.
- Già dalle prime tavole, al momento del sorteggio, si comprende quello che sarà uno dei protagonisti di Fehida: il destino. Che ruolo svolge nella storia e nella vita dei protagonisti?
Il destino ineluttabile è un tema centrale nella storia. Proprio perché nella criminalità, ma pure nell’educazione predatoria del maschile si avverte questa sensazione di un fato già scritto, rispetto al quale si può solo prendere il proprio posto. Ci sono tanti elementi che rimandano a questo concetto, tanti livelli di lettura. Da una parte la sottotrama legata all’amore, di matrice shakesperiana, dall’altra i modelli classici. Gli anziani sono le tre parche, tagliano e cuciono destini e si comportano come il coro della tragedia greca. E anche la struttura del racconto, con un climax forte a midpoint e una piramide con il vertice centrale omaggia la tragedia greca. Perché la lotta contro il destino è titanica.
- Fehida non è soltanto una storia di ‘ndrangheta, ma anche quella di un rapporto amoroso proibito tra i due ragazzi che diventano una sorta di Romeo e Giulietta ostacolati dalle rivalità tra le due famiglie. La loro relazione, se scoperta, potrebbe generare una nuova faida. In un’organizzazione dove il machismo è la base, come viene sentita l’omosessualità e perché avete deciso di inserirla nel fumetto?
L’omosessualità è uno dei tabù delle società viriliste, proprio perché il sesso è vissuto come sopraffazione e potere, era inevitabile per noi scardinare questi preconcetti con la dolcezza del sentimento. I due ragazzi sono fiori che nascono nell’asfalto, e portano temi rivoluzionari, per questo e perché sognano la libertà.

- I personaggi sono tutti uomini, rivali, assetati di vendetta, ma sono anche ragazzi svezzati a pane e pistole. In un mondo in cui il rito d’iniziazione è farsi una sega e poi sparare, perdendo in un attimo innocenza e sogni, mi sono ritrovata ad empatizzare con alcuni personaggi, che rimangono vincolati a queste leggi, ma che sognano altro. Faceva parte del vostro piano fare in modo che i lettori provassero pena per i personaggi, anche se commettono bestialità indicibili?
Kurt Vonnegut dice che i cattivi non esistono e io sono d’accordo. Il racconto bianco e nero, bene e male, finisce per essere in realtà rassicurante: puntare il dito e salvaguardare la comunità dai “cattivi”, che poi sono i più deboli. Volevamo raccontare esseri umani con le loro storture, sogni, speranze e bestialità. L’empatia è fondamentale per capire cosa succede a quei ragazzi, anche se la storia non fa sconti a nessuno. Non è buonista, non opera salvataggi. Eppure sì, gli vogliamo bene a questi ragazzi, per questo non possiamo permetterci di indorare la pillola.
- Parlare di criminalità organizzata può rivelarsi un’arma a doppio taglio perché, sebbene gli intenti siano altri, si rischia di offrirne un ritratto in qualche modo positivo. Come avete trovato la chiave giusta per parlarne restando umani ma obiettivi al tempo stesso?
Io e Raffaele eravamo certi di una cosa, non volevamo trasformare questa storia in un “crime”. Troppo spesso nel mio lavoro di sceneggiatore vedo i soliti schemi narrativi quando si parla di criminalità organizzata, si scomoda il racconto del potere, infondo si glorifica il male. Di solito si scelgono altri modelli narrativi per una storia come questa: Amleto, Riccardo III. Figli illegittimi che sognano il trono, storie di vendetta… Abbiamo cercato di lavorare su due piani, da una parte il racconto oggettivo, esteriore, dall’altra il racconto emotivo, entrando nella testa (letteralmente) dei personaggi. Sono i piccoli sprazzi di umanità, dettagli come un pupazzetto giocattolo, a dare quel senso di vicinanza che rende insostenibile il racconto della violenza.

- A livello grafico hai fatto una scelta precisa riguardo ai colori perché la palette ha ruolo attivo all’interno della storia e cambia in base alla fazione della faida. Da dove viene questa scelta?
Ecco, se ci sono tante scelte sulle quali io e Raffaele non sappiamo prendere la paternità, quella del colore so per certo che non è mia! Mi fido ciecamente di Lele, e lui ha lavorato con Riccardo Pasqual per trovare una palette che dividesse le parti in gioco e i piani narrativi. Io ho collaborato nello scegliere quella che ci convinceva di più, ma sono davvero felice che ci fossero Lele e Riccardo al volante del colore!
- Anche l’ultima domanda della nostra intervista doppia è ormai di rito. Hai altri progetti in cantiere? Lavorerai ancora con Raffaele?
Con Raffaele è nata una collaborazione, un’amicizia, un matrimonio. Stiamo lavorando a nuovi progetti che speriamo presto di svelare, certo posso dirvi che in Raffaele ho trovato il co-autore che cercavo da tanto tempo.
Ringraziamo i due autori che si sono prestati a questa intervista doppia e voi per averci letto, ci rivediamo il mese prossimo!