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"Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la lettura è un'immortalità all'indietro."

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Robbe grosse sull’erotismo, Giambattista Basile

Dopo l’ultima puntata, un po’ di tempo fa, su Foscolo, torniamo su questi schermi per parlarvi di erotismo. Il protagonista di oggi è un autore che non è conosciutissimo. Purtroppo non è inserito neanche nei programmi scolastici, ma per il nostro tema è perfetto.
Chi è Giambattista Basile? È un nobile napoletano vissuto tra Cinquecento e Seicento, secoli che diciamoci la verità, sono abbastanza poveri dal punto di vista della nostra letteratura. Basile è un messo politico quindi gira tutta la Campania, proprio grazie a questo le sue opere hanno un’enorme vivacità linguistica, pregne di forme dialettali miste, che ci rendiamo conto, possono essere forse poco comprensibili al di fuori dei confini campani.

Potremmo tranquillamente parlare di erotismo analizzando Le avventurose disavventure (1611) dedicato al principe Luigi Carafa, ma anche le Egloghe amorose e lugubri (1612) e varie altre opere della sua produzione, ma ci vogliamo soffermare sulla sua opera più importante: “il più antico, il più artistico e il più ricco fra tutti i libri di fiabe popolari” come diceva Benedetto Croce, Lo cunto de li cunti overo Lo Trattenemiento de’ Peccerille (1634). Si tratta di un’opera uscita postuma, divisa in cinque parti, ciascuna delle quali divisa in 5 giorni in cui si narrano 5 cunti, questa ripetizione del numero 5 ha fatto sì che l’opera sia conosciuta anche con il nome di Pentamerone. Questo nome ovviamente, come la stessa struttura dell’opera è strettamente legato al Decameron di Boccaccio, usato da Basile infatti come canovaccio” per il suo lavoro.

Il primo cunto è quello di Zoza ed è una novella – cornice che fornisce il pretesto per la raccolta stessa. Zoza è una principessa malinconica che non ride mai. Scoppia a ridere quando una vecchia si scopre la pancia per insultare un fante. Questa risata però non andrà per niente giù alla vecchia, che fa un incantesimo a Zoza: non potrà trovare marito finché non rianima il principe di Camporotondo, riempendo di lacrime un vaso posto ai suoi piedi, al risveglio lui sarà il suo sposo. Zoza parte alla ricerca e conquista i favori di tre fate buone che le donano una noce, una castagna e una nocciola. Dopo aver ricevuto i tre regali giunge dal principe, comincia subito a riempire il vaso, ma arrivata quasi alla fine dell’impresa la principessa si addormenta, ed è allora che una schiava prende il suo posto colmando facilmente la breve misura rimasta e sposandosi con l’ambito principe Tadeo. Immaginate a questo punto la povera Zoza, già non rideva mai, figuriamoci adesso! Però non si dà per vinta, si piazza di fronte al castello e aspetta l’occasione per vendicarsi. Ovviamente Zoza è anche una gran figa e questo non è che sfugga a Tadeo, che se ne innamora, ma la moglie, che nel frattempo è rimasta incinta lo minaccia ripetutamente di procurarsi un aborto. Zoza si rende conto però che ha ancora i doni da usare, sbem! Prende la noce da cui esce un pupazzo canterino. La schiava Lucia, vedendo il giocattolo ovviamente lo desidera ardentemente e forza il marito ad andarlo a chiedere alla vicina, la quale glielo cede. Dopo quattro giorni, Zoza apre anche la castagna, dalla quale escono una chioccia e i suoi dodici pulcini d’oro. Lucia li vede e se ne invaghisce, così minaccia nuovamente Tadeo e gli impone di procurarsi la fonte delle sue brame. Tocca infine alla nocciola, che rivela una bambola che fila dell’oro e vabbè sappiamo già che va a finire come con i giochi precedenti, ma stavolta appena la donna stringe al petto la sua conquista, inizia a sentire l’incontrollabile desiderio di ascoltare raccontare delle storie e ovviamente minaccia il marito. Ecco quindi il pretesto per la cornice: Tadeo, preoccupato per il nascituro, fa un bando, convocando «tutte le femmene de chillo paese» e vengono scelte dieci donne, le più brave narratrici.

L’universo di Basile, soprattutto ne Lo cunto de li cunti è costellato da donne, dalle narratrici alle protagoniste, dalle spalle alle cattive. E già questa introduzione/cornice ci catapulta in quella che sarà il leitmotiv dell’opera, in cui ad emergere saranno più personaggi femminili. Vediamo che anche qui infatti, Tadeo è un burattino nelle mani della moglie, non ha nessun guizzo e non è il grande eroe duro e puro a cui la letteratura e la cultura stessa ci hanno abituato. Questa nuova linfa femminile, che scorre in quest’opera è ovviamente data dal fatto che si tratta di una raccolta di leggende popolari create per l’intrattenimento dei piccoli. Chi mai allora poteva creare queste meravigliose fiabe, se non le donne, le uniche d’altronde a svolgere il lavoro di cura e accudimento necessario alla crescita dei bambini, ed allora almeno nelle storie fantastiche le donne si riappropriano di spazi che ovviamente erano a loro negati.
Ma qui parliamo soprattutto di erotismo e di sessualità, cose che ne Lo cunto de li cunti non mancano, anche per il motivo citato sopra. Pensate che il ‘500 sia stato meglio dei secoli precedenti? Più libertino? Assolutamente no. È stato proprio in questo secolo che la donna ha visto la totale chiusura di ogni possibilità legata al suo essere donna, figuriamoci come stavano messe con la sua sessualità, manco mo stiamo poi così bene, quindi non è difficile immaginarlo; e allora si sono dovuti trovare degli escamotage per esprimere voglie e desideri.

Tra le varie storie che parlano di erotismo, quelle che ci piacciono di più abbiamo:

  • Lo cuorvo
  • L’orsa
  • Penta
  • La vecchia scorticata
  • La superbia castigata
  • Mortella
  • Sapia Liccarda
  • Sole, Luna e Talia

Lo cuorvo è contenuta nella IV giornata, narrata da Ciommetella e tratta del desiderio sessuale del protagonista Milluccio, che vedendo un corvo morto nella neve, viene colpito da questo contrasto e desidera ardentemente una donna bianchissima con le guance rosse. Milluccio, grazie al fratello Iennarello trova questa giovane: Liviella, ma l’unione è contrastata da una serie di elementi magici, come il padre di lei che poi attuerà un escamotage per fare in modo che la figlia non se ne vada di casa, questo non ferma Milluccio dall’avere però subito atti sessuali con la bellissima Liviella. È ovvio che il sangue, inserito in un contesto simile, può simboleggiare le mestruazioni e anche la fertilità, le guance rosse ovviamente sono il simbolo della “fatica” dopo l’atto sessuale. Il problema è che quello che ha Milluccio è un «capriccio de femmena prena» e vorrebbe trovare una donna come l’immagine che ha in testa, ma le immagini lasciamole dove sono, poi il suo desiderio impellente è fare sesso e mettere incinta qualcuno, insomma proprio carino Milly.

Il desiderio invece è la pulsione che porta il vedovo re di Roccaspra in l’Orsa a voler sposare la figlia. Il topos dell’incesto non è una novità, ma dobbiamo ricordarci di collocare questi eventi. Da poco c’era stata la Controriforma, iniziata con il Concilio di Trento nel 1545, capiamo bene che ci troviamo in un periodo ben più buio e restrittivo di quanto potesse essere il Medioevo, ma fortunatamente Basile si trova nel Regno di Napoli, che è leggermente più tollerante per il tempo e quindi anche l’incesto poteva essere inserito nelle narrazioni, poi è comunque un grande a parlarne quindi. Tornando alla nostra storia, perché il re vuole sposare la figlia? Perché è la persona più simile alla moglie defunta, alla quale aveva promesso di non risposarsi a meno che non trovasse una bellezza almeno pari alla sua. Ovviamente la povera fanciulla è inorridita dalla proposta e riesce a mettersi in salvo grazie all’aiuto di una vecchia che la trasforma in orsa.

L’incesto è anche presente nella seconda favola della terza giornata, dove un altro re, stavolta quello di Pretasecca, anche lui rimasto vedovo, vuole sposare Penta, la propria sorella, perché conoscendola è sicuro di poter avere un legame duraturo. La donna si dimostra subito indignata di fronte a questa proposta e pensa che il fratello sia impazzito, ma ovviamente lui non demorde, continua anzi ad insistere. La povera Penta è costretta a sacrificarsi e si fa tagliare le mani per rendersi meno desiderabile, il re allora persa la passione la fa gettare in mare.

Queste due storie sottolineano lo stereotipo, ancora attuale, dell’uomo incontrollabile, preso da una smania immensa di passione che non riesce a discernere il bene e il male e la donna, che invece per sopravvivere e per non sentirsi violata deve sacrificarsi. Sia l’Orsa che Penta compiono un sacrificio estremo, abbandonano alcuni dei loro connotati per cercare di sottrarsi alla furia rabbiosa e insistente degli uomini. È questo ciò che le donne hanno imparato a fare praticamente sempre ed è l’insegnamento che le donne stesse tramandavano alle generazioni successive: la donna deve stare sempre in guardia, essere pronta anche a sommi sacrifici, mentre l’uomo ha come unico obbiettivo il raggiungimento dei propri desideri, senza pensare alle conseguenze che questi possono avere su altrз.

Ne La vecchia scorticata è presente invece il tema della lussuria. Le due vecchie protagoniste vedono un gran gnocco, che è il principe della città e cercano in tutti i modi di riuscire a conquistarlo. Con un escamotage, una delle due sorelle riesce a catturare l’attenzione del principe, questo grazie a un ringiovanimento che la fa apparire meravigliosa. Ovviamente si guarda bene dal svelare alla sorella il trucco e le fa credere che è riuscita a diventare così fregna togliendosi la pelle calante e la spinge così a morire sotto le lame del barbiere che la scortica viva. Anche Sapia Liccarda si basa sul desiderio sessuale femminile. tranne quello della protagonista, Sapia che invece è ferma e non si lascia abbindolare dai bellimbusti.

Sole, Luna e Talia è la fiaba che è alla base de La bella addormentata. La fiaba è molto simile a quella più conosciuta, ma presenta delle caratteristiche diverse. Talia è il nome della bella addormentata che a causa di un sortilegio, pungendosi con un fuso, cade addormentata per sempre. Un re di passaggio dal castello, si ferma e scorge questa meravigliosa fanciulla addormentata, ma non la sveglia con un bacio. Il re la stupra. Lei sta dormendo e pur consapevole del fatto che la fanciulla non è cosciente il re continua il suo intento.

«Ma, non revenenno pe quanto facesse e gridasse e pigliato de caudo de chelle bellezze, portatola de pesole a no lietto ne couze li frutte d’ammore e, lassatola corcata, se ne tornaie a lo regno suio, dove non se allecordaie pe no piezzo de chesto che l’era socciesso.»

Addirittura lui la dimentica, completamente. Fino a che non ritorna, ovviamente di passaggio da quel castello e scopre che quello stupro ha portato ad una gravidanza che ha dato vita a due gemelli: Sole e Luna, che hanno salvato Talia, succhiandole il dito ed estraendone la “lisca” di lino che l’aveva uccisa. Dopo varie peripezie, perché c’è da dire che il re era anche sposato, Talia e il sovrano si sposano. Anche in questo caso viene sottolineato il comportamento maschile come incontrollabile, totalmente privo di raziocinio. Il re avvinto dalla bellezza di Talia, decide di stuprarla, poi va via. Ricordiamo che le narratrici, le protagoniste, le aiutanti, le antagoniste in queste storie sono tutte donne e queste storie erano tramandate tra le donne stesse per mettersi in guardia. Altro che lisca di lino, il pericolo più grande per una donna sono gli uomini. Inoltre c’è da dire che a differenza della fiaba che conosciamo maggiormente in cui è il bacio del principe a risvegliare e salvare la principessa, quindi l’uomo ha questo connotato di eroe salvifico; nella versione di Basile non è assolutamente così. Il bacio e poi lo stupro senza il “risultato” del risveglio non sono altro che un indice della limitazione del potere maschile sulle donne. Non è quello a salvare Talia e nulla può l’invincibilità del membro maschile, nè la maternità, nè il parto, visto che Talia si risveglia molto dopo aver dato alla luce i suoi figli.

Arriviamo dopo stupri, incesti e quant’altro alla fiaba che secondo me è la più erotica del Pentamerone: Mortella. Questa fiaba parla di una gravidanza fuori dal comune. La moglie del contadino partorisce una frasca di mortella, invece dei figli che tanto stava aspettando. Fino al parto, la donna aveva avuto una gravidanza normale, di nove mesi, ma poi qualcosa è andato storto. La mortella diventa anche simbolo di una certa sacralità, non può essere distrutta, pena una maledizione fatata.
La nascita vegetale dal ventre di una donna, non è un’invenzione basiliana, la troviamo anzi in tanti miti di fondazione e di passaggio ed ha ovviamente come scopo quello di fertilizzare la terra. La mortella diventa in questo caso la pianta fertilizzante, che riesce a far avverare i desideri di maternità se ci si prende cura di lei. Dopo la moglie del contadino che aveva curato con amore questa pianta, passa un principe che vede questa frasca e decide che deve essere sua. Il principe si prenderà cura effettivamente della mortella innaffiandola puntualmente. Solo dopo questa prova di pazienza mista all’amore, avviene la seconda nascita: dalla mortella alla Venere della mortella. Si ritorna quindi ai motivi della fertilità e soprattutto del desiderio. Il tema della fertilità si trova strettamente collegato a quello del ciclo naturale che si ripete, il ramo di mortella dà origine ad una donna che è simbolo personificato dell’amore e della vita e nemmeno la morte materiale può fermarlo.
Il principe ovviamente è avvinto dalla bellezza di questa Venere e il gioco di giacere insieme e poi svanire della fata, ricorda molto quello di Amore in Amore e Psiche. Questa fiaba ha però un’altra particolarità quella di descrivere la vagina e la descrive come:

«maraviglia delle femmine, lo specchio,
l’ovetto dipinto di Venere, il cosino bello di Amore»

«toccando si accorse che era roba liscia e mentre pensava di palpare spine d’istrice trovò una cosina più tenera e morbida della lana barbaresca, più bastosa e cedevole della coda di una martora, più delicata e lieve del piumaggio di un cardellino»

È la prima volta che viene descritta una vagina in questo modo, in modo allusivo, ma non troppo. Viene espressa come una meraviglia, delicata, morbida, accogliente. Sono parole e similitudini molto più auliche di quelle che si riservano normalmente al membro. I genitali femminili sono anche associati alle piante, non è un caso che la descrizione più realistica sia comunque creata in una storia in cui la protagonista in realtà è lei stessa una pianta. Il Pentamerone è pieno di metafore e allegorie che vengono usate per descrivere l’erotico.

Il coito si riduce a una serie di azioni che sono proprie dell’agricoltura o comunque afferiscono a questa sfera semantica: seminare il campo, raccogliere fiori, lavorare il terreno d’amore. La virilità maschile viene poi associata alla sfera animale principalmente usatissima è la similitudine con gli aucielli. Anche le metafore sessuali riprendono la dualità comune, stando sempre sulla separazione tra uomo attivo e donna ricettiva. Altre metafore che troviamo nel Pentamerone per il coito sono quelle belliche o anche metafore culinarie in cui l’atto sessuale è visto come un pasto dolce e delizioso, ma essendo un pasto è anche impellente e necessario, in cui comunque la donna è vista come la preda, la cacciagione che è pronta per essere mangiata.

Le allusioni sessuali e in realtà tutti gli atti sessuali descritti nell’opera basiliana non lo rendono di certo un libro adatto a innocenti infanti. Effettivamente non si tratta di fiabe o di favole come le intendiamo noi, ma sono appunto cunti. Basile ha scritto parte della sua opera nell’avellinese, ed è stato ospite nel castello di Montemarano. Questa caratteristica ha influito ovviamente sulla lingua, che non è un puro napoletano, per questo mi sento ulteriormente privilegiata per riuscire a capire l’opera senza bisogno di intermediari e per questo vi posso dire che cunto non è sinonimo di fiaba. Durante la vendemmia, pregavo sempre mio nonno Bruno, dicendogli “Nò, nò, me faj nu cunto?”. Il cunto è un racconto di vita reale, la narrazione di un fatto quotidiano, ma straordinario, generalmente tragicomico, spesso a lieto fine, non sono solamente storie di vita vissuta, ma storie tramandate di generazione in generazione e non dovete prendere come totalmente fantasy, la presenza di streghe, maghi, trasformazioni, creature, mentre si parla di vita reale come fosse qualcosa appena accaduta, io anche ho sentito cunti su lupi mannari, folletti, malocchio e streghe. Quando entriamo nel mondo di Basile dobbiamo uscire fuori da quello che per noi è realtà e abbracciare ciò che è realtà per un gruppo diverso in un’epoca diversa (manco troppo lontana visto che gli anziani e le anziane dell’entroterra campano ancora credono veritiere queste storie).

Quello che ha fatto Basile non è stato inventare da zero delle narrazioni, ma collezionare i cunti dei luoghi che ha visitato, raccoglierli e portarli alle corti napoletane, sfoderando questi racconti durante i banchetti. È molto importante l’erotismo nell’opera di Basile ed è presente in un modo meno poetico rispetto ai precedenti autori esaminati in questa sede, meno poetico perché l’atto sessuale non è protagonista, né è protagonista la bellezza della donna, è visto come necessario non solo per la procreazione, ma anche per un proprio appagamento, è più realistico potremmo dire. Le narratrici, le protagoniste, le eroine sono tutte donne, l’universo del Pentamerone è dominato da donne e Basile cerca di mantenere il punto di vista femminile anche nella narrazione dell’erotico, dando quindi enorme importanza agli atti sessuali, al piacere e ovviamente anche alle gravidanze, ma guardandole da un punto di vista più popolare, senza sublimarli. È un’opera meravigliosa, sicuramente vicinissima al Decameron, ma che ha moltissimo del folklore meridionale. Non dimentichiamo inoltre di dare un grande merito a Basile, quello di aver portato alla creazione delle fiabe che tuttз amiamo, ma che in realtà conosciamo grazie ad altre versioni, dove le donne sono spesso solamente delle fragili anime da salvare e non sono protagoniste come nel Pentamerone. Da Lo cunto de li cunti derivano tra le varie fiabe: Cenerentola, La bella addormentata, Il gatto con gli stivali, Hansel e Gretel, Raperonzolo. Attualmente si trovano tranquillamente in italiano con il testo a fronte, quindi leggete!


Bibliografia

A. Gasparini, C. Chellini, Setole e spine. La crescita segreta del maschile e del femminile, Erikson, Roma, 2019.

A. Vespaziani, Favoloso diritto: metafore del potere ne “Lo Cunto de li Cunti”, Anamorphosis: Revista Internacional de Direito e Literatura, Vol. 6, Nº. 1, 2020.

A. E. Zanotto, I personaggi femminili ne “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di studi linguistici e letterari, 2016.

G. Basile, Lo cunto de li cunti, L’Isola dei Ragazzi, Napoli, 2014.

G. Carrascón, C. Simbolotti (a cura di), I novellieri italiani e la loro presenza nella cultura europea: rizomi e palinsesti, Accademia University Press, Torino, 2020.

M. Forlino, Esoterico, erotico, esotico: la “cuntaminazione” del Pentamerone, Graduate School-New Brunswick
Rutgers, New Brunswick, New Jersey, 2015.

MoranteMoravia. Una storia d’amore, A. Folli

«Erano una coppia leggendaria. Li chiamavano MoranteMoravia, tutto attaccato, come se la loro fosse un’unica vita, come fossero parte di un binomio inscindibile. Eppure non potevano essere più diversi. Ironico, entusiasta, con una grande passione per la discussione e il dialogo, Alberto Moravia era un uomo lontano dal monumento letterario che i suoi contemporanei gli eressero sin dai primi esordi. Giovane, timida e poverissima, Elsa Morante cercava di costruire l’immagine di una donna sicura, ma nascondeva una grande vulnerabilità affettiva, un bisogno estremo di continue conferme.»

La coppia più leggendaria della letteratura italiana del Novecento e non solo, è la protagonista di MoranteMoravia. Una storia d’amore saggio di Anna Folli, edito da Neri Pozza Editore, che indaga vita, morte e miracoli delle due colonne portanti della nostra letteratura moderna, ma soprattutto delinea la loro vita privata e affettiva, guarnendo le meravigliose pagine autoriali con interviste, testimonianze dirette delle persone vicine all’inossidabile duo.

È stato molto interessante leggere il progredire di questo rapporto: la passione del primo incontro, dettato dal caso ma da cui emerse un desiderio comune, la fine delle relazioni passate, fino ad arrivare al matrimonio e agli anni della seconda Guerra Mondiale, che costrinsero i due a stare nascosti per più di un anno nei territori di Fondi per evitare l’arresto di Moravia, di origini ebree. Colpisce come, persino in quel periodo di estremo pericolo, il loro rapporto rasenti quasi l’idilliaco con un modello di vita tra il campestre e il cittadino, tra uova strapazzate e ripetizioni al figlio dei pastori che li proteggevano. Proprio Moravia dirà: «Con tutte le paure che avevamo quello fu uno dei momenti più felici della mia vita». Perché il binomio MoranteMoravia comprende un affetto, un tenersi a vicenda che trascende desiderio e la passione, e che prosegue nonostante la loro separazione: quindi non stupisce che Alberto, negli ultimi mesi della vita di Elsa, la vada a trovare ogni giorno in clinica e che si presenti al suo funerale. 

Non che il loro matrimonio non abbia mai avuto delle ombre o dei momenti difficili, anzi: per le relazioni che entrambi intessono mentre sono sposati si potrebbe quasi parlare di un rapporto aperto ma in cui non si rispettavano le stesse regole. Moravia aveva relazioni fugaci ma vedeva in Elsa il centro del suo amore, e talvolta della sua poetica, riesce a “liberarsi” di lei solo quando incontrerà Dacia Maraini con cui in seguito andrà a vivere; Morante, nonostante non utilizzi mai il suo rapporto con Alberto nella scrittura («Io non facevo parte della sua poetica – ricorderà Alberto –, ma mi amava e forse l’amore per lei era più importante della letteratura») era una donna che amava in modo totalizzante, quasi in totale abnegazione di sé, e che non poteva quindi concepire fino in fondo il linguaggio d’amore del marito («Vorrei fargli sentire delle parole bellissime, una musica tanto potente da riuscire a spiegargli che cosa è la vera bellezza della vita e del mondo»). Quasi per caso si dirige verso altri lidi ed è proprio dai due uomini per cui lei proverà un amore travolgente che si dipaneranno le crisi più forti della coppia, ossia la storia con Luchino Visconti e quella con Bill Morrow, finita in tragedia e a cui verrà dedicata una sezione de Il mondo salvato dai ragazzini.

Due atteggiamenti che si riflettono nel loro modo di lavorare, di scrivere: Moravia metodico, con una routine precisa e scandita dagli impegni; Morante travolta, si fa soggiogare dai suoi personaggi e dalla storia fino a dimenticarsi di bere e mangiare, in un rapporto tra passione e violenza.

«Nel diario la Morante non si vergogna di annotare anche i sogni più scabrosi. Confessa il suo desiderio, che si nutre di sessualità ma anche di tenerezza: “Ora anche con i sensi amo terribilmente A. I miei sensi non sono mai stati così, sempre all’erta, sempre morbidi.” Si censura, cancellando le parole che le sembrano più scandalose.»

La passione tra i due è travolgente. Anche a livello sessuale l’intesa è impetuosa e se è vero che Morante mantiene sempre un certo riserbo nella descrizione della scabrosità, tenendo comunque il tutto velatamente tenero, lo stesso non fa A. che non nasconde le varie relazioni extraconiugali, un puro divertissement. Per Moravia l’amore è Elsa, ma questo non può distoglierlo sessualmente dalle altre donne. Elsa lo sa e se in un primo momento arde di gelosia poi accetta, ma non si capacita fino in fondo del comportamento del marito: «Non mi riesce di essere per te quello che vorrei – gli scrive -. Vorrei esserti così vicina che tu te ne accorgessi e non andassi continuamente via da me come hai fatto finora. Vorrei essere un bene per te, e per questo rinuncerei a me stessa e a tutto quello che mi riguarda.»
Rinuncerà davvero a sé stessa Morante, ma non solo per il suo amato Alberto. Le sue due ossessioni, già citate Luchino Visconti e Bill Morrow la faranno annullare di nuovo, dimentica di tutto, anche di Moravia che le sta accanto: con Morrow vive un amore in cui si ripristinano gli schemi che già c’erano stati nei primi tempi di Moravia, Morante vuole prendersi cura, guarire, vuole sentirsi utile e indispensabile. Morrow è il suo ragazzo celeste dall’odore di nido. Il ragazzo da proteggere dalla droga, dall’alcool, dal suo “morbo pauroso”. Se la Morante sembra quasi accettare le scappatelle di Alberto, Alberto vede in Morrow una minaccia immensa per il matrimonio e infatti le sue previsioni saranno giuste. Accusa Bill di essere esclusivo, di volerlo allontanare da Elsa, ma in realtà si andrà a creare tra i tre un rapporto morboso e malsano. Moravia stesso infatti si prende cura del fragile Morrow quando Elsa è fuori Roma.

«Per lei è impossibile vivere anche le sue relazioni più private senza metterne a parte il marito: non solo gli fa conoscere Morrow ma in qualche modo pretende che anche lui entri nella loro vita.» Si delinea questo stranissima relazione in cui Elsa seppure sia presissima da Morrow, non dimentica mai Alberto, né Luchino Visconti a cui ancora scrive lettere, in cui Morante usa sempre il plurale, ad indicare l’inscindibilità di lei e Morrow. Anche se il rapporto tra lei e Bill non è propriamente esclusivo, deve infatti fare i conti anche con un altro incomodo, Sergio, amante di Morrow e catena che all’inizio lo ha unito alla scrittrice, ma anche con una serie di ragazze e ragazzi con cui Bill s’intrattiene continuamente. Alberto in questa crisi coniugale consiglia Elsa, diventa confidente di questo rapporto estremamente problematico che riesce perfino ad allontanare la Morante dalla scrittura. Bill è irrequieto, instabile ed Elsa lo diventa insieme a lui, è proprio attraverso Bill che avviene la disperata separazione, anche se non sarà mai davvero netta tra Morante e Moravia.

Quello che viene esplorato nel libro è qualcosa di più della storia di un matrimonio: è la storia di un sentimento, di una passione che sboccia non solo tra Elsa e Alberto ma anche con la stessa letteratura, che sarà davvero la loro compagna per la vita.

È anche un amore verso il mondo artistico del Novecento, rappresentato non solo da grandi nomi della letteratura – Einaudi, Bompiani e Pasolini per dirne alcuni – ma da chi considerava Roma, nonostante l’andatura altalenante del periodo storico, una fucina creativa, un’enorme casa in cui era possibile, ovunque si andasse, trovare persone di simili intenti con cui confrontarsi.

Oltre a Roma è presente Capri come centro della loro vitalità; mentre nella Capitale sviluppano la loro vita professionale, l’isola sembra essere quasi la culla del loro matrimonio, il luogo in cui possono essere qualcosa di diverso da Moravia e Morante, ma solo Alberto ed Elsa, al punto che lo scrittore una volta che ci tornerà dopo la morte di lei dichiarerà di averci ritrovato troppo di lei al punto da non poterlo sopportare.

Sicuramente il pregio di questo saggio è che i due autori vengono messi a nudo e con loro moltissimi illustri personaggi del nostro Novecento, una lettura interessantissima che umanizza due mostri sacri del panorama culturale italiano, anche se come leggerete pur esplicitando in qualche modo le loro umanità si rivelano essere profondamente unici, imprevedibili e assolutamente fuori da ogni canone, come solo grandɜ artistɜ possono essere.

Maria Chiara Paone
Tararabundidee

Robbe Grosse sull’erotismo – Umberto Saba

Dopo aver parlato in lungo e in largo del I secolo, grazie a Lucrezia e alla sua analisi della personalità di Ovidio ci riaddentriamo nel Novecento, analizzando l’espressione poetica erotica di Umberto Saba.

Abbiamo già parlato di un grandissimo poeta del Novecento, cioè Montale; qui ci troviamo però su un livello profondamente diverso. L’esperienza di Saba era infatti visibilmente distante dalla poesia coeva: disinteressato alle avanguardie (il suo tempo coincide con quello del Futurismo), il poeta triestino si ricollegava direttamente alla tradizione letteraria da Petrarca a Leopardi, saltando addirittura la lezione simbolista. Ciò che colpisce maggiormente nella produzione di Saba è sicuramente l’utilizzo di un linguaggio molto semplice, mai scarno, ma sicuramente meno prezioso e ricercato dei suoi contemporanei, addirittura quasi all’opposto se si pensa alla poesia di poco precedente alla sua come quella dannunziana.

Non ci sono civetterie letterarie né ostentazione prosastica: allo stile Saba aderisce intimamente, nel proprio linguaggio cerca di trovare e far emergere la verità istintuale e inconscia. Non gioca con i propri strumenti di tecnica poetica, ma li usa con l’unico scopo di scavo esistenziale. La poesia di Saba è incentrata sul dato autobiografico, sui profondi dissidi psichici del poeta, che fu malato di nevrastenia e si sottopose a terapia psicoanalitica. Tra tutte le opere scritte da Saba, ci soffermeremo in questa sede sul Canzoniere e principalmente sulla prima parte di esso (1900 – 1920) analizzando alcune poesie contenute in Casa e Campagna (1909 – 1910) e Trieste e una donna (1910 – 1912).

In Casa e Campagna troviamo la poesia “A mia moglie” che Saba stesso adora, in nessun’altra infatti lo troviamo così spontaneo e gioviale. Il poeta intuisce il rapporto di identità che esiste tra la moglie e “tutte le femmine di tutti i sereni animali”, la scoperta svela l’unità della natura che accomuna in un’unica soluzione ogni essere vivente. Il poeta costruisce il testo come una favola o come una preghiera.
Il lessico si mantiene ancorato al livello quotidiano su una trama di vocaboli colloquiali, rari infatti sono i termini di uso letterario.
C’è da premettere che l’erotismo poetico di Saba non ha nulla a che vedere con quello che abbiamo analizzato fino ad ora. Non si tratta di spudorati riferimenti sessuali, di doppi sensi neanche troppo velati. È appena accennato, trattato con familiarità e pacatezza. Non ci sono strani fluidi, fiori che si aprono, caverne da esplorare: tutti i topoi della poesia erotica con Saba crollano. Possiamo forse definire la poetica erotica di Saba come più sentimentale, rispetto alla prorompente e sessuale poetica del genere.

Non ci sono fughe d’amore, amanti nascoste, al centro della sua poesia erotica c’è sempre sua moglie: Carolina Woelfer, conosciuta nei suoi versi come Lina.

Saba giudica A mia moglie “una delle più belle e ispirate liriche della prima metà di questo secolo”. Il poeta paragona la donna a tanti animali (la pollastra, la cagna, la giovenca, la coniglia, la rondine, la formica, la pecchia) mettendo in risalto le qualità di lei più schiette ed essenziali.

In Storia e cronistoria del Canzoniere in cui Saba commenta la sua opera letteraria scrivendo in terza persona dice a proposito di questa poesia:

“Diremo di più: se di questo poeta si dovesse conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa. Altre più belle poesie egli scrisse, più complesse, più seducenti, forse anche più perfette; ma in nessuna – crediamo – la nativa spontaneità della sua vena zampillò da una sorgente più profonda. Giacomo Debenedetti parla della «sensualità quasi animalesca» colla quale sono portati i paragoni. Non si tratta di sensualità animalesca, forse nemmeno di sensualità, in nessun caso di sola sensualità (ma quando il Debenedetti scrisse il suo primo saggio sul Nostro era vergognosamente giovane: aveva 22 o 23 anni). La poesia fa pensare piuttosto ad un improvviso ritorno all’infanzia; un ritorno però che non esclude la contemporanea presenza dell’uomo. […] Il poeta, come il fanciullo, ama gli animali, che, per la semplicità e nudità della loro vita, ben più degli uomini, obbligati da necessità sociali a continui infingimenti, «avvicinano a Dio», alle verità cioè che si possono leggere nel libro aperto della creazione. Un giorno – e fu un bel giorno – Saba deve aver sentito con acuta gioia e tenera commozione, le identità che correvano fra la giovane donna che gli veniva accanto e gli animali della campagna dove allora abitava.”

Dunque in A mia moglie Saba mette in risalto la regalità della donna e la paragona a svariate femmine di animale: sia chiaro, mai in modo volgare, ma decantando le qualità di ogni specie che si sublimano in Lina. Lina allora è “giovane e bianca pollastra” che incede superba con voce dolcissima, ma è anche una “gravida giovenca” libera e festosa che si lamenta alla ricerca di un dono. Ora, fosse stato qualcun altro, avrei interpretato il dono come una chiara allusione sessuale, ma in questo caso credo che con “il mio dono t’offro quando sei triste” vada oltre l’organo sessuale, indicando invece comprensione, affetto, fiducia. Lina diventa poi “lunga cagna” dolce, ma infervorata. Tra tutti gli animali che Saba cita nel componimento, sicuramente l’accostamento più sessuale è con la coniglia. “Pavida coniglia” viene infatti chiamata Lina. I conigli sono il simbolo della sfrenatezza sessuale. Nella stessa strofa si allude anche agli angoli bui e al partorire, indicando molto probabilmente un atto sessuale, al buio come quello dei conigli, che si accoppiano normalmente di notte e un successivo concepimento.
La strategia riproduttiva dei conigli è di tipo “r” conosciuta come riproduzione indefinita che li accomuna anche a lepri, pesci, rettili e batteri. La coniglia ha due uteri. Se uno dei due è già pieno, durante gli accoppiamenti effettuati quando la coniglia è già incinta, l’ovulo fecondato si insedia in quello ancora disponibile; gli ovuli inoltre possono spostarsi durante l’amplesso in modo da essere fecondati anche quando entrambi gli uteri sono occupati, provocando due gravidanze. In più il coniglio femmina inizia a essere feconda in giovane età, si riproduce per otto mesi all’anno, e ha gravidanze brevi, di circa 30 giorni. Sicuramente tutte le coniglie sono pavide, ed è lampante il perché Saba abbia usato proprio la coniglia per parlare di gravidanze e accoppiamenti.
Viene poi ancora paragonata alla rondine e alla formica, la lirica si conclude in una conferma del grande sentimento d’amore tra Saba e Lina:

“E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.”

Saba non teme le ripetizioni, si potrebbe dire a questo proposito, che il Canzoniere sia la ripetizione variata ad infinitum di una medesima poesia. Per Saba la poesia ha una funzione pratica che diverte, serve a sfogare il dolore, non a vincerlo. Infatti troviamo versi dedicati a Lina praticamente in ogni salsa, che esprimono circa lo stesso soave e tenero sentimento.

Spostandoci da Casa e Campagna a Trieste e una donna, ci soffermiamo per un attimo su La malinconia amorosa, in cui dal verso 10 Saba dice:

“Malinconia amorosa
del giovane che siede
dietro un banco, che vede
chine sulle sue stoffe le più belle
donne della città…”

Non si parla di Lina, ma appare un tipo di amore malinconico, meno terso, per una cosetta che succede nel 1911, di cui vi parlerò fra un momento. Qui troviamo un giovane ragazzo possente, carico di speranze e di opportunità (anche amorose) dietro a un banco che potrebbe rappresentare un ostacolo, qualcosa che gli impedisce di apprezzare pienamente le più belle donne della città, lui scruta queste donne che sono in una posizione ben precisa: “chine”, tra l’altro su qualcosa di suo, a strizzare un po’ l’occhio su un atto sessuale. L’atto del chinarsi verrà poi ripetuto qualche verso dopo, descrivendo chi coglie i frutti. È un seminare amore e poi riprenderlo, è un chinarsi per accogliere, ma è anche un guardare la bellezza da dietro un muro, non poter essere realmente partecipi dell’amore.

Dice Nora Baldi: “La Lina, mi diceva, aveva rappresentato il porto nella sua vita; lui, era sempre stato la nave errante. La sua poesia ne era stata alimentata, la sua esistenza sorretta per tanti anni.” Cosa era successo allora? Nel 1911 la sicurezza, la stabilità emotiva, tutto ciò che era stata Lina per Saba si sgretola. Inizia infatti tra i due un profondo distacco, dovuto al fatto che Lina si innamora di un pittore. Questa esperienza si tramuterà nella poetica di Saba in versi di rammarico e risentimento per il tradimento, esplicitati soprattutto in Nuovi versi alla Lina (seconda parte di Trieste e una donna). Nel 1912 la tensione fra i due finisce, ritornano insieme e vissero per sempre felici e contenti.

Lina aveva rappresentato per Saba una fonte di ispirazione, era musa, centro dell’inno alla vita e all’amore ma arriverà ad alimentare la poesia anche nel senso opposto, divenendo oggetto del lamento nei momenti di crisi coniugale. Se in Casa e Campagna, la Lina è tratteggiata come una regina e ne viene messa in risalto la sensualità, la dolcezza, la bellezza in Trieste e una donna Saba tratteggia un profilo diverso: appassionata, bugiarda, devota, gelosa, “or sorella, or amante, ora nemica”. Appare un po’ lunatico Saba e lunatica sembra anche Lina: sorella amante e nemica, e si dimena tra sentimenti di affettuosa tenerezza e altri di ricercato distacco, nella consapevolezza che Lina è sì il porto sicuro per il proprio errare ma, viste le circostanze, il poeta non riesce a perdonare del tutto, anche perché il tradimento della moglie lo ha portato a vagare lontano dal suo porto.  Lina diventa distante e si manifesta una incomprensione reciproca, che si esprime in Mia Moglie:

“Quando triste rincaso e lei m’aspetta
alla finestra, se la bella e cara
moglie, ad un gesto, il mio male sospetta,
se il disgusto mi legge, od altro, in faccia,
tosto al mio collo le amorose braccia,
come due serpi vigorose, getta;
me solo accusa la sua voce amara.
‘E così dice è così che mi torni.
Non un bacio per me, non un sorriso
per tua figlia; stai lì, muto, in disparte;
si direbbe, a vederti, che tu hai l’arte
di distruggerti. Ed io…’ ”

Diciamo che Saba non va per il sottile, parla di disgusto, ma soprattutto delle serpi vigorose, le braccia della moglie che quasi lo forzano a ritornare sui suoi passi, non un bacio, non un cenno d’amore per lei. Dice addirittura che il poeta ha l’arte di distruggersi, è tutto passato, l’allarme è rientrato, almeno per Lina, ma tutto questo amore Saba non lo riesce a sostenere, conclude infatti:

“Quanto, quanto m’annoi”,
io le rispondo fra me stesso. E penso:
Come farà il mio angelo a capire
che non v’ha cosa al mondo che partire
con essa io non vorrei, tranne quest’una,
questa muta tristezza;
e che i miei mali sono miei,
sono all’anima mia sola.”

C’è un’altra poesia che è stata scritta nel momento di crisi ed è molto interessante perché si parla di Carmencita, è Autunno. Carmen viene usata dal poeta come fosse una incarnazione della vitalità esuberante di Lina. Lina è diventata madre, l’ha tradito, non è più la stessa donna che ha mosso il cuore di Saba. Viene allora sostituita, diventa la passionale Carmen. C’è anche da dire che Saba stesso nel periodo della crisi deve in qualche modo recuperare una sorta di passionalità eterosessuale, che può essere letta nella figura di Carmen. Pare infatti che siano da attribuire a questo periodo le esperienze omosessuali di Saba di cui sarebbero prova le non poche poesie dedicate a giovani ragazzi.

Ma torniamo a Carmen, o meglio a Lina, che nella sua veste usuale si avvia rapidamente a diventare la figura stereotipata della moglie, con la quale il poeta si rifiuta persino di condividere la propria «muta tristezza», figuriamoci altro. Carmen è invece un desiderio letterario irrealizzato, che ha urtato contro lo scoglio della vita vera, della realtà quotidiana. Carmen è un richiamo alla gioventù, alla freschezza, alla passionalità, che si è persa nel rapporto con Lina. Infatti in Autunno, Saba quasi rimprovera Lina di non essere più la seducente donna di un tempo:

“Che succede di te, della tua vita,
mio solo amico, mia pallida sposa?
La tua bellezza si fa dolorosa,
e più non assomigli a Carmencita.”

C’è ancora molto risentimento, ma siamo verso la ripresa. Vi avevo detto che vissero felici e contenti e infatti, chiudo queste Robbe Grosse con «Dico al mio cuore, intanto che t’aspetto» una lirica che esprime secondo me al meglio la vicenda tra Saba e Lina, che si apre con una forte carica di aggressivo risentimento, il poeta si dice che dovrebbe odiarla una donna così, l’ha tradito, non può più comprenderlo, ma poi la vede: è ancora amore.


Bibliografia

  • L. Baldacci, Terzo programma, Quaderni Trimestrali, n°4, Eri Edizioni, 1962.
  • N. Baldi, Il Paradiso di Saba, Mondadori, 1958.
  • M. Bersani, M. Braschi, Viaggio nel ‘900, come leggere i testi della letteratura contemporanea, a cura di Maria Corti, Mondadori, 1984.
  • J. Galavotti, La costanza del dolore nel libro di una vita: Casa e Campagna, di Umberto Saba, in Brevitas, percorsi estetici tra forma breve e frammento nelle letterature occidentali, a cura di Stefano Pradel e Carlo Tirinanzi De Medici, Trento, Università degli Studi di Trento-Dipartimento di Lettere e Filosofia, 2018.
  • R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, Manuale di letteratura, Il fascismo, la guerra e la ricostruzione: dall’Ermetismo al Neorealismo, G. B. Palumbo Editore, 2013.
  • P. V. Mergaldo, La tradizione del ‘900, Carocci, 2017.
  • L. Polato, Aspetti e tendenza della lingua poetica di Saba, in “Ricerche sulla lingua”, poetica contemporanea, Padova, 1966.
  • U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, Mondadori, 1963.
  • M. Santoro, Disegno Storico della civiltà letteraria italiana, Le Monnier, 1983.

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