«Il mondo va avanti anche se io sono in pericolo – Non fare la vittima. Ma è vero: per ogni malato la sua condizione è un evento assoluto. L’enigma che dovrebbe fermare il corso del tempo, la vita degli altri».
Questo pensiero, formulato ormai più di un anno fa da Jonathan Bazzi in Febbre (Fandango Libri) – ora presente nella dozzina di candidati al Premio Strega – sembra descrivere pienamente la situazione che stiamo vivendo in questo momento con la pandemia in circolazione, a prescindere dal numero delle fasi a cui siamo arrivati.

Anche questa febbre, fin dal principio leggera ma debilitante, è sintomo di qualcosa di più grande: dopo aver fatto le analisi Jonathan scopre di essere sieropositivo. Da qui parte una narrazione estremamente autobiografica, che si altalena in perfetto equilibrio tra passato e presente, tra il prima e dopo la scoperta: il suo concepimento, una crasi tra i suoi genitori destinata a non durare, l’incontro con l’infettivologo, la sua infanzia a Rozzano, quasi un non-luogo della periferia milanese, («Rozzano è Milano, ma non è Milano. […] A Rozzano tanta gente ha origini meridionali, ma Rozzano non è Sud. È una specie di Sud senza il calore del Sud. […] È Sud raffreddato, senza mare, senza famiglia, senza più tradizioni»), il dialogo con la madre Tina e il compagno Marius, una triade che si farà forza in questo nuovo mondo con l’HIV, il rapporto con l’amore e il sesso, divisi fino a un certo punto seccamente in due metà distinte.
«I ragazzi di cui mi innamoro e gli uomini che cerco per gli incontri occasionali. Bene e male, angeli i primi, minotauri i secondi. […] ragazzi giovani, visi bellissimi, occhi, bocche, mani, stelle, barbe bionde, fiori di luce, ecco l’amore. […] pezzi di carne senza testa, gente di spalle, muscoli, piedi, rettili e buio, sfondo rosso scuro, la furia dell’anonimato».
Immergendosi nella storia sembra che questa febbre, arrivata a manifestare l’immunodeficienza, sia l’ultima materializzazione di uno stato sempre presente in Jonathan, che si fa strada dai tempi delle medie prima e delle superiori poi e che si esprime in ossessioni di vario tipo: l’acquisto compulsivo di tarocchi, il disagio che gli provoca il suo balbettare, la scelta dilaniante dell’avviamento professionale – che gli consentirà di parlare di meno – e il bisogno a metà tra il necessario e lo smanioso di uno studio matto e disperato.
L’identità è il perno su cui ruota tutto il racconto ma non è sinonimo di autoreferenziale, anzi: all’inizio la scoperta della malattia è vista come l’ingresso in una realtà più grande, comunitaria perché sì, il virus potrebbe colpire chiunque indistintamente e Bazzi lo descrive in un pezzo di immedesimazione che va riportato integralmente per goderne a pieno, come se si leggesse di un viaggio mistico quanto tragico: «Sono stato in Africa, sono stato ad Haiti, sono stato a New York, in California, sono stato in tutti gli Stati Uniti – raro cancro osservato in 41 pazienti gay, deficienza immunitaria correlata all’omosessualità –, sono stato in Brasile, sono arrivato in Europa, sono stato scimmia, membro della tribù, partner inconsapevole, attore porno, aspirante cantante, e poi sconosciuto, donna tradita, danzatore, tossico, escort, parrucchiere, dirigente d’azienda, sportivo paziente a cui è andata male, marito infedele, impiegato, senzatetto, figlio di balordi, attivista, prete, drag queen, ragazza transgender, professore, casalinga, medico, operaio, poeta, fotografo, madre che l’ha trasmesso al figlio untore, vendicatore, adolescente alle prime esperienze, vittima di stupro: il virus è stato in tutti questi corpi, li ha attraversati, sfruttati, erosi. Le persone finiscono, sono finite: quei corpi non esistono più. Invece lui è sopravvissuto, immortale, li ha trascesi, va oltre. È passato ad altri – in altri, in altre – arrivando fino a qui».

Ma a un certo punto quella stessa diagnosi che aveva spezzato irrimediabilmente in due la sua vita, che gli ha aperto gli occhi sulla mortalità, sembra passare quasi in secondo piano perché visita dopo visita, pastiglia dopo pastiglia non è più la cosa che l’ha segnato ma parte integrante del suo essere: «L’HIV è una mia caratteristica reale, incontrovertibile. Una delle tante. […] E allora? Condizione corporea, oggettiva. Non decisa, scelta, voluta: il virus in realtà non dice niente di me, non dice niente di chi ce l’ha. […] Ho deciso di essere un sieropositivo che si lascia individuare, che racconta più che lasciarvi immaginare».
Da qui questo report, questa confidenza-manifesto in cui ognuno può trovare il suo angolo di immedesimazione.
Maria Chiara Paone