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"Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la lettura è un'immortalità all'indietro."

Autore

Maria Chiara Paone

Best of 2022 – SERIE TV

Un altro anno è passato e, come al solito, è tempo di ricordare (o, nel mio caso, di tornare indietro il più possibile su Tv Showtime) tutte le serie passate sugli schermi in questi 12 mesi, tra vecchie, nuove, rinnovi e finali, e decidere quali vale la pena ricordare: per me è sempre il remake de La scelta di Sophie ma, con fatica e dedizione, sono riuscita anche quest’anno nell’impresa.

Heartstopper

Tratta dall’omonimo webcomic di Alice Oseman (ora anche serie di graphic novel), si racconta la storia d’amore tra due ragazzi, Charlie e Nick; uno dei pochi gay dichiarati della scuola il primo, gentile e popolare giocatore di rugby il secondo. Dall’inizio sembra una storia impossibile, persino per un’amicizia: ma in otto puntate si arriva a una riflessione profonda sulla sessualità, senza drammoni da soap opera ma esplorando sentimenti ed emozioni reali. Rispetto alla controparte di carta qui si ha la possibilità di approfondire le storie dei personaggi cosiddetti “secondari”, che meritano assolutamente sia per l’interpretazione che per la rappresentazione di varie realtà della comunità LGBTQ+.

Una storia dolcissima, da vedere tutta d’un fiato.

How I met your father

Vi vedo alzare gli occhi e iniziare a chiudere la pagina. I reboot/sequel/spin off non sono mai visti bene, specie di una serie importante com’è stata How I Met your Mother. Ma provate a lasciare da parte la tabella dei confronti, a dimenticare le aspettative e a cercare di ritrovare gli stessi identici personaggi in dei nuovi interpreti: questo improbabile gruppo di sei, capitanato dalla romantica Sophie (narratrice e protagonista, interpretata da Hillary Duff e Kim Cattrall) è unico, eterogeneo e con molte cose da raccontare sull’essere giovani a New York nel 2022. La chimica tra di loro è da subito percepibile, il mistero sul padre è leggermente più fitto e richiama subito alle prime puntate e ci sono degli omaggi alla serie madre che vi stupiranno e vi faranno commuovere. Con queste premesse dategli una possibilità e non ve ne pentirete.


House of the Dragon

Anche qui meglio evitare un confronto con la serie madre, soprattutto sapendo come quella sia andata a finire. Varrà quindi la pena iniziare questa serie incentrata sulla dinastia del Drago, sulle loro tradizioni, sulle lotte di potere per quel trono che è ancora al massimo dello splendore? Per me lo è stato: già dalle prime puntate si sente un ritorno a quella sceneggiatura distesa, che si prende tutti i tempi per mostrare un mondo e dei personaggi che non ci sono familiari, ma con omaggi a elementi che ci fanno ancora tremare dall’emozione. Per me è stato come decidere di ritornare in un luogo che mi ispirava tanto ma che per cause esterne mi aveva fatto schifo la prima volta che c’ero andata: una sensazione di dèja-vu e di novità unite alla voglia di fare le cose diversamente. Per ora il viaggio è piacevole quindi me lo godo: in caso contrario stavolta diamo noi fuoco a Westeros.

The Bear

Una delle serie rivelazione dell’anno e ha ben ragione di esserlo. Carmy, ragazzo prodigio dell’alta cucina, ritorna a Chicago per gestire la fatiscente paninoteca di famiglia dopo il suicidio del fratello maggiore, cercando allo stesso tempo di elaborare il lutto. Una serie che crea dipendenza e di dipendenza se ne parla parecchio: dalle pasticche, dall’alcool, da quella cucina che diventa la tua casa, da quella brigata che diventa la tua famiglia, dall’ansia che scaturisce da ogni semplice comanda e dalla scansione delle ore del servizio. Pensiamo che programmi come Masterchef o Hell’s Kitchen ci abbiano abituati alla realtà, ma è qui che si vede, anche se in modo coreografato, il vero mondo della cucina; sporco, veloce, rude, ma anche pieno di rispetto, di passione e creatività.

Boris 4

Nonostante abbia una storia di tre stagioni e un film a precederla, questa nuova stagione di Boris è un inedito sotto alcuni punti di vista: non si fa più critica alla possibilità di una tv diversa, ma di una serialità. Il nemico non è più la Rete, ma la Piattaforma con il suo crudele Algoritmo che cerca la diversità omologando tutti i prodotti, tra rappresentazione e amori teen; le frasi motivazionali (“dai, dai, dai”) in inglese sono percepite come frasi che non si possono dire, ci si chiede se “a merdu” sia accettabile per rivolgersi agli stagisti e si deve stare attenti a non avere caccolette negli occhi o sono guai!

Di uguale c’è la genialità di alcune battute che hanno ancora lo stesso spirito, nonostante siano passati dieci anni, e che sono destinate a diventare nuovi tormentoni (“Lo dimo” il nuovo “F4”); ma anche di alcuni attori che rimangono fedeli alle loro controparti (nonostante alcuni risultino più macchiettistici), tra tutti Corrado Guzzanti con le sue improvvisazioni senza sbavature e che portano a farti stare male dal ridere.

Alcuni della troupe non sono più tra noi (Daje cor vino, Itala, sempre), sia nella finzione che nella realtà, portando a un livello ancora più estremo il gioco della metavisione, alla base del progetto, dando vita a uno dei saluti più belli e sinceri visti sullo schermo.

Le serie non scadono (i recuperoni)

Cougar Town

Una serie adatta agli orfani di Friends e Scrubs in cui Monica Geller si è reincarnata in Jules Cobb, una quarantenne fresca di divorzio che decide di rispolverare la sua vita amorosa con accanto il suo nucleo familiare disfunzionale che comprende il figlio adolescente Travis, l’ex marito Bobby, il vicino di casa cinico Grayson e le sue amiche più care, Laurie, giovane assistente che cerca di motivarla in questa rinascita, ed Ellie, praticamente una seconda Jordan Sullivan, anche lei reincarnata in questa neomamma di una piccola cittadina in Florida (anche se il marito Andy non è per niente come Cox fisicamente ma ugualmente esilarante).

Le risate sono garantite così come il vino (e gli innumerevoli recipienti di dubbia capacità in cui berlo)!

E anche per quest’anno diciamo addio a un paio di serie poco amate, ovvio

Farewell to…

Grace and Frankie

Di cosa parla questa serie già lo sapete se avete consultato le Letture Arcane di Novembre (se non lo avete fatto, aggiornatevi qui!): ho faticato a vedere la seconda parte della stagione finale perché non avevo assolutamente voglia di staccarmi dal mondo di queste due nemiche-amiche, talmente folli da decidere di vivere insieme nonostante siano agli antipodi e smettano di parlarsi almeno una volta al giorno. Ma il loro viaggio doveva concludersi e lo ha fatto nel migliore dei modi, affrontando come ultimo nemico quello che prima o poi tutti dovranno affrontare e che ci separa inevitabilmente dalle persone amate: la Morte. Lo hanno fatto mixando commedia e drammaticità come Grace prepara i suoi Martini o Frankie utilizza i pennelli, in equilibrio perfetto ma facendo trasparire una sorpresa amara. Tutti i personaggi, compresi i figli e gli ex mariti, dopo aver fatto i conti, sei anni fa, con la fine delle loro vite apparentemente perfette, devono vedersela con nuovi inizi. E non sempre è una scelta facile da compiere.


This is Us

Di questa serie ho parlato per ore, sono diventata come una predicatrice che vuole convincere la gente a convertirsi.

Ho raccontato, a chiunque volesse ascoltarle, le vicende della famiglia Pearson, di Jack e Rebecca alle prese con il loro ruolo di genitori di tre figli: Kate e Kevin, gemelli biologici nati da un parto plurigemellare (a cui il terzo gemello non è sopravvissuto) e Randall, neonato afroamericano che sarà adottato dalla coppia in ospedale; diversissimi tra loro ma incredibilmente uguali nelle loro paure e nelle loro ansie.

Ho vissuto con loro le festività (soprattutto il Ringraziamento), gli amori, i drammi, le dipendenze che questa famiglia ha attraversato negli anni, attraverso cliffhanger misuratissimi e mai banali e la sovrapposizione di più piani temporali, innovazioni che hanno elevato questo family-drama, facendolo diventare unico nel suo genere.

Ho fatto il tifo per tutti i personaggi che si sono aggiunti a questo piccolo nucleo; alcuni sono entrati subito nel mio cuore, altri hanno faticato per essere apprezzati, altri ancora non mi hanno mai toccato profondamente. Nessuno è perfetto dentro questa serie, nemmeno quest’ultima stagione è stata perfetta: un po’ disomogenea, con alcuni tempi morti e il fiatone per recuperare pezzi perduti l’anno prima a causa della pandemia, ma anche piena di momenti intensi e di viaggi simbolici e non.

Ma non è così che sono le persone reali? Non è così che va la vita? Uno straordinario caos che ci insegna, parafrasando una delle frasi più belle di questa sesta stagione, che il mondo non deve fermarsi per le cose brutte che ci accadono, non importa quanto paralizzanti siano, perché sarebbe tutto buio: deve continuare a girare così da poter trovare uno spiraglio di luce dall’altra parte della porta.

Per me questa serie è stata davvero un faro in questi sei anni: spero che sia lo stesso anche per chi la inizierà ora.


Il caso Innocence, M. Bagnato

Ogni città ha la propria anima, luminosa o meno che sia, che ne pervade ogni viale, ogni cortile, ogni campanile di ogni chiesa. Può gettare ombre o rischiarare le tenebre nelle vite di chi la abita, ma in definitiva è la gente stessa a forgiarla, nel bene o nel male, a renderla quello che è. Ogni città ha la propria anima, ma quella di Emerald Falls era nera come la morte.

Il caso Innocence (Golem edizioni) di Mattia Bagnato è un romanzo duro, che non fa sconti.

Protagonista indiscussa è Clara, una giovane donna che, come scopriremo presto, ha compiuto uno spietato delitto – chi sia la vittima resta un mistero fino alle battute finali – e la cui salute mentale è posta sotto esame. Follia o premeditazione? È questo l’interrogativo che si pone il lettore e, con lui, la dottoressa Page, convocata per stilare una perizia psichiatrica e pronunciarsi in merito: sarà lei che dovrà decretare in quale struttura Clara sconterà la sua pena. Sì, perché a dispetto del nome – Clara Innocence – la nostra protagonista si dichiara colpevole senza mezzi termini, con una lucidità che non lascia spazio a interpretazioni. Eppure, addentrandosi nella sua storia, il lettore non può fare a meno di ritenerla una vittima più che la carnefice.

Il racconto è scandito in quattro fasi – a cui corrispondono altrettante sezioni del testo – che ripercorrono le tappe salienti dell’esistenza di Clara, narrando soprattutto i traumi che ne hanno provocato la progressiva deriva e, apparentemente inevitabile, caduta. A far da sfondo Emerald Falls, una cittadina degradata sulla quale sembra gravare un’ombra che condanna i suoi abitanti al baratro: la sua inquietudine così viscerale ricorda quella di Derry, nata dalla penna di Stephen King, a cui forse Bagnato si è ispirato nel rievocare un’idea di città che diventa parte attiva delle vicende che accadono ai protagonisti. Senza voler entrare nel merito dell’intreccio – originale, complesso e che merita di essere scoperto durante la lettura, con tutta la sorpresa che molti risvolti possono regalare – non si può non evidenziare quanto l’autore sia stato accurato nell’incastrare ogni tassello in maniera coerente e allo stesso tempo sbalorditiva. Per esempio i numerosi comprimari che attraversano le pagine non sono mai figure accessorie, ma giocano sempre un ruolo essenziale nella vicenda di Clara. Sorge quindi spontaneo chiedersi quanto l’ambiente, le circostanze, gli incontri siano determinanti – nel bene o nel male – a imprimere una direzione all’esistenza delle persone. E, ancor di più, sorge spontaneo chiedersi cosa ne sarebbe stato di Clara, di quella bambina piena di sogni e aspirazioni che abita le prime pagine, se la vita non avesse imposto alla sua storia un inarrestabile declino. E non solo per lei.

Forse se avesse avuto degli amici su cui fare affidamento, una famiglia che lo aspettasse oltre quei pesanti cancelli neri di ferro battuto, una casa in un quartiere rispettabile e un cane da portare a spasso al guinzaglio tutte le mattine, allora forse quella libertà tanto agognata e allo stesso tempo temuta non l’avrebbero terrorizzato in quella maniera. Fatto sta che lui non aveva niente di tutto ciò […].

Sono domande a cui il romanzo non fornisce una risposta, lasciando che sia il lettore a formulare la propria ipotesi. Eppure è presente una traccia, un indizio che non si può trascurare: la scrittura.

Clara scrive, e continua a farlo anche quando la vita sembra sempre più simile a una colpa che a un dono. Se la scrittura sarebbe stata la vocazione che l’avrebbe condotta a una vita migliore, se non più bella in assoluto, non è dato saperlo: l’unica cosa certa è che resta l’unica oasi in cui Clara può sempre trovare sollievo.

La scrittura rende liberi, sembra quindi voler concludere Mattia Bagnato, lasciando che una scintilla di speranza rischiari anche la notte più buia.

Best of 2021 – SERIE TV

Anche il 2021 è passato, tra vaccini, green pass e una parvenza di nuova normalità: ed eccomi di nuovo qui con una breve lista delle serie che mi hanno colpita di più quest’anno, tra novità, recuperi e qualche addio che merita di essere omaggiato.

(Inoltre, lo sapete che con Sailor Comics quest’anno abbiamo anche parlato di serie tv?)

WandaVision

La Marvel ha iniziato l’anno entrando nelle nostre case con un esperimento che nei primi minuti non si sa bene dove voglia andare a parare: perché sembra che due Avengers stiano vestendo i panni dei protagonisti di Vita da Strega? Nonostante l’ombra del MCU aleggi potente è una serie che può essere vista da chiunque perché il nemico stavolta non è un alieno venuto da chissà dove, ma il dolore e la sua elaborazione, decisamente più universali, anche se non per questo risulta più facile confrontarcisi. La commozione è tangibile come anche le innumerevoli citazioni e omaggi agli oltre cinquant’anni di serie televisive della storia americana: a voi il compito di trovarli tutti!

Cruel Summer

Le vite intrecciate di due adolescenti: Kate, ragazza super popolare, dalla vita apparentemente perfetta; Jeanette, timida e introversa che sta ancora capendo come farsi apprezzare al di fuori del proprio piccolissimo cerchio di affetti. Le seguiamo anno dopo anno, dal 1993 al 1995, assistiamo al rapimento di Kate e al suo successivo ritorno nel mondo, dove Jeanette si è riuscita a insediare come nuova regina dell’alveare, con annessi e connessi. Ogni puntata si focalizza sullo stesso giorno ma alternandosi su tre differenti piani temporali, distinti soprattutto da un uso magistrale della fotografia, e con punti di vista sempre differenti che portano a pensare: chi ha ragione in questa storia? E chi, invece, in maniera incontrovertibile, starà mentendo per difendersi? In questo thriller niente può essere dato per scontato.

Guida astrologica per cuori infranti

Forse nelle stelle non ci crede più nessuno dopo la débacle di Paolo Fox del dicembre 2019 ma è sempre divertente avere qualcosa su cui fare affidamento e, perché no, a cui scaricare le proprie responsabilità se tutto inizia ad andare male. Questo inizia a fare Alice che, come assistente di produzione di una piccola rete di Torino, decide che saranno le stelle a decidere per lei nella sua vita privata e in quella professionale, ideando un nuovo programma di appuntamenti basato sull’oroscopo. Per entrambe le sfere la sua guida sarà Tio, massimo esperto di astrologia: riuscirà Alice a convincere del suo valore sia Carlo, suo collega ed ex fidanzato, che Davide, il nuovo affascinante direttore artistico?  

(Nota a margine: quanti credono che Alice potrebbe essere una Jessica Day italiana?)

Strappare lungo i bordi

La serie di Zerocalcare, dopo tutte quelle cronache sulla pandemia dal fronte di Rebibbia, è finalmente giunta a noi. Ed è esattamente come potevamo immaginarcela. Dal tono-comico amaro, in cui si percepisce tutto il suo universo, fatto di paranoie, citazioni pop e una colonna sonora di tutto rispetto: solo qui si potevano ascoltare Manu Chao, Gli Ultimi e Xdono di Tiziano Ferro in un unico, micidiale cocktail (non ho dimenticato Haut les coers: come si potrebbe?). Le lacrime usciranno sicuramente: che siano per il troppo ridere, la commozione, o per la consapevolezza di essere parte di quella generazione disillusa e piena di buffi che Zero sa benissimo come descrivere, con la potenza di diecimila pugni nello stomaco.

Harlem

Ma perché il mondo stava aspettando il sequel di Sex and the City (anche un po’ inutilmente, a mio parere) quando si può dare uno sguardo al mondo più reale e consapevole del quartiere afroamericano di Manhattan? Camille, Quinn, Tye ed Angie ricordano a grandi linee le loro colleghe bianche ma mostrano un mondo differente, fatto di appropriazioni culturali e gentrificazione, contraddizioni ed elevati standard da mantenere, al lavoro e in famiglia. Ma non temete: in mezzo a tutti questi paroloni ci sono le storie d’amore e battute assolutamente senza filtri à la Samantha Jones.

I RECUPERI DELL’ANNO (dato che le serie non scadono)

Teen Wolf

L’ideale per ritornare ai tempi dell’adolescenza, ma quella bella in cui Mtv era ancora un canale di musica e qualche volta produceva pure serie. Anche se la storia sembra essere tratta da uno spin off di Twilight sul mondo dei licantropi non fatevi ingannare: il mondo del soprannaturale intriga, le battute fanno morire dal ridere e c’è Stiles, uno dei personaggi più belli che sia mai stato scritto.

Un’ideale macchina del tempo.

The Office

Finalmente ho visto anche io questa pietra miliare della comedy. Ero sempre stata restia per via della tecnica del mockumentary ma posso finalmente dire che questa serie merita il successo che ha avuto nel saper raccontare lo straordinario che si nasconde nelle faccende ordinarie, come un semplice lavoro di ufficio. Ci si affeziona a Michael Scott (soprattutto dalla stagione 2), ci si arrabbia per i tentativi goffi e i passi falsi nel corteggiamento tra Jim e Pam, si ride per le stranezze di Dwight e di tutto il resto del gruppo (team Kevin e Stanley a vita), ma soprattutto: si riconoscono tutti – ma proprio TUTTI – i meme che invadono il web.

FAREWELL TO…

Atypical

Sam Gardner con la sua famiglia e tutti i loro amici, esperti di sindrome di Asperger e amanti dell’Antartide, hanno salutato nel più atipico dei modi, tra sogni da realizzare, piccoli passi verso l’indipendenza e la scoperta della propria identità: non è così che si diventa grandi?

Superstore

L’ipermercato Cloud 9 ha chiuso i battenti ma suggerisco, a chi ancora non l’ha fatto, di varcarne le porte e andare a conoscere i loro commessi, capitanati da America Ferrera e Ben Feldman, che vi introdurranno nel faticoso ed esilarante mondo del lavoro duro senza possibilità di appellarsi ai sindacati, una parolaccia indicibile.

Brooklyn Nine Nine

Anche la più assurda stazione di polizia di New York, che ci aveva abituati a rapine di Halloween, inseguimenti in elicottero e a riconoscere la forma umana dell’emoji del 100 – per i profani Gina Linetti – ha salutato il suo pubblico dopo 8 anni ed è cresciuta immensamente, lottando contro le più grandi ingiustizie con un pensiero politico netto ma non didascalico o retorico, mantenendo sempre la sua anima comica fuori dalle righe; proprio come il suo protagonista, il detective Jake Peralta.

Quest’ultima stagione, avvenuta dopo la morte di George Floyd e le manifestazioni del Black Lives Matter, avrebbe potuto essere un suicidio, avrebbe potuto ignorare o glissare su questi argomenti dato il mestiere dei personaggi, ma così non è stato, anzi.

Non voglio dilungarmi per non rischiare di spoilerare (anche se questa serie meriterebbe sonetti lunghi come i rotoloni Regina per quanto è stata sottovalutata, non solo in Italia ma anche in America, quando la Fox ha osato cancellarla alla fine della quinta stagione) ma se siete orfani di The Office questa potrebbe essere la sua degna erede.

Maria Chiara Paone

Ragazza, donna, altro – B. Evaristo.

«Stasera lo spettacolo di Amma, L’ultima amazzone del Dahomey, debutta al National Theatre».

Questo l’evento che dà il via alla narrazione di Ragazza, donna, altro di Bernandine Evaristo, vincitore del Man Booker Prize 2019 (insieme a I Testamenti di Margaret Atwood) e tradotto per Sur da Martina Testa.

Ha su di sé la spada di Damocle di essere stato un libro divisivo portando a un grande dibattito nella comunità di lettori e lettrici, tra chi lo ha amato e chi non lo ha sopportato, sia per i temi che per la struttura, senza punteggiatura e molte andate a capo. 

Si tratta di un’opera mista: potrebbe essere definita una raccolta di autobiografie, dodici come le donne che raccontano la loro vita e le loro esperienze, ma anche un romanzo sui generis dato che le protagoniste non sono slegate tra loro ma hanno almeno un legame una con l’altra, un filo invisibile che le unisce, in alcuni casi anche inconsapevolmente. Così troviamo Amma, la drammaturga che si ritrova divisa tra l’espressione indipendente delle sue idee e la probabile svolta “borghese” che subirebbe la sua opera in determinati contesti; qui appunto il centro del racconto e delle connessioni, dalla figlia Yazz e i suoi perenni interrogativi nel mondo aperto dell’università, all’amica Dominique, intrappolata in una relazione tossica con la “ultrafemminista” Nzinga; e così via, in una matassa di relazioni da dipanare durante la lettura e che porta il lettore a interrogarsi continuamente e a unire i puntini di questo percorso. 

C’è un’unione data anche da una certa settorialità perché, per volere dell’autrice, è rappresentato il mondo delle donne nere britanniche, con tutte le loro sfide: sicuramente quelle subite a causa del colore della loro pelle, a cui si sommano soprattutto quelle legate al genere e alla sessualità, argomenti intersecati tra loro. Così vengono trattati i temi del razzismo, delle seconde generazioni, del femminismo (e del femminile) e del ruolo della donna all’interno della società, tra episodi di marginalizzazione ma anche di rivalsa. Dai limiti che si impone Evaristo, però, emergono altre voci, che si intersecano a quelle principali e allargano il raggio d’azione: molto particolare il dialogo tra Yazz e la compagna di università Courtney in cui avviene uno scambio d’opinione sulla concezione personale (e riconosciuta) di privilegio: 

«Courtney ha risposto che essendo Yazz la figlia di un professore universitario e di una regista teatrale molto nota non può certo dirsi svantaggiata, mentre lei, Courtney, viene da un ambiente molto povero dove è normale lavorare in fabbrica a sedici anni ed essere una ragazza madre a diciassette, e la fattoria di suo padre è di fatto proprietà della banca
sì ma io sono nera, Court, e questo mi rende più oppressa di tutti quelli che non lo sono, tranne Waris che è la più oppressa di tutti (ma tu questo non glielo dire)

in base a cinque categorie: nera, musulmana, donna, povera e col velo».

Ci sono molte riflessioni sull’autorappresentazione, specialmente per chi fa parte della sfera LGBTQ: molte di queste sono enunciate dal personaggio di Megan/Morgan che, oltre a combattere “con diverse parti di sé” – «Megan era in parte etiope, in parte afroamericana, in parte del Malawi e in parte inglese

che a suddividerla così suonava strano perché di base era semplicemente un essere umano tutto intero» – si ritrova dal fronteggiare una rivoluzione silenziosa presso le mura domestiche a diventare una voce importante da ascoltare e tramandare. Proprio durante uno dei suoi incontri all’università dirà: «io posso rappresentare solo me […] io non faccio da portavoce a nessuno e non sono a capo di un movimento transgender, sono qui solo per raccontare il mio specifico percorso individuale verso l’identità non binaria».

Le protagoniste hanno personalità molto fisse, come se fossero degli archetipi che si presentano sul palcoscenico di un teatro e, come moderne amazzoni, si raccontano al pubblico che è all’ascolto: non sono sempre donne gradevoli o facili da apprezzare – alcune sono persino insopportabili – ma è anche nelle fragilità o nei difetti che il lettore può provare a empatizzare con loro.

E gli uomini, in questo scenario, dove vanno a collocarsi? Sono presenti e interagiscono con le ragazzedonnealtro della storia ma sono più che semplici decorazioni sul muro, la scenografia su cui ci si trova ad agire e anche a subire: le loro azioni non hanno sempre una spiegazione, soprattutto quelle più inusuali, e talvolta è mostrata solo la parte peggiore, quella più animalesca e violenta, votata solo alla soddisfazione di un desiderio, qualunque esso sia. Solo Roland, il padre di Yazz, ha diritto a un suo flusso di pensieri: forse perché essendo omosessuale è anche lui “altro”? 

Nonostante la sua funzione politica, ovviamente non è un libro considerabile di approfondimento: sarebbe stato interessante avere una sorta di nota bibliografica su molti aspetti storici e culturali, sia passati che presenti, che sicuramente sarebbero stonati in un prodotto diventato “pop”: tuttavia è un testo scorrevole e godibile, che fornisce durante la lettura diversi spunti su cui riflettere – e, in un secondo momento, anche approfondire – e su cui è veramente difficile non trovare degli argomenti di discussione. 

Maria Chiara Paone

Best of 2020 – SERIE TV

Che quest’anno sia stato quello che è stato lo sappiamo tutti. Ma fortunatamente, in mezzo a tante cose spiacevoli e a momenti assolutamente orribili abbiamo trovato qualcosa di bello a cui aggrapparci: per me sono state le serie tv, che ho continuato a vedere approfittando delle serate passate a casa e dei momenti in cui dovevo aspettare che gli impasti lievitassero.

Anche quest’anno ne ho viste davvero tante (nella mia mente sto tenendo una specie di archivio ma ancora adesso ne stanno emergendo di nuove) e proverò, con un po’ di sofferenza perché parlerei di tutto quello che mi sono vista, pure la pubblicità della Calabria, a parlare di quelle che mi hanno colpita di più in questo folle 2020.

Unorthodox

Tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman questa miniserie ha una potenza incredibile. Assistere alla storia di Esty, ragazza di fede ultra-ortodossa chassidica che scappa dalla sua città, dall’infelicità del suo matrimonio e dalla sua comunità, è doloroso: diventiamo testimoni silenziosi della violenza fisica e psicologica che questo specifico credo può scatenare verso le donne, trattate solo come macchine da riproduzione, senza alcun pensiero o azione volta al bene di loro stesse. La sua fuga a Berlino, così colorata ed eterogenea, sembra quasi accecante in confronto ai colori e ai gesti tutti uguali che albergano a Williamsburg, Esty si ritrova disorientata ma intenzionata a cambiare la sua vita, a essere finalmente libera.

Normal People

Qui forse lancio un’opinione impopolare ma: come per Il racconto dell’ancella, ho trovato l’adattamento a serie leggermente più convincente rispetto al libro di Sally Rooney. Sembra strano a dirsi perché la sceneggiatura segue in maniera molto fedele la narrazione del libro, con quasi nessun cambio; ma la chimica tra gli attori (io ormai bimba di Paul Mescal), il loro cercarsi tra Sligo, Dublino e il resto d’Europa, la resa in immagini della difficoltà che si prova nell’andare avanti nonostante ci si senta inadeguati, non uguali a quelle considerate come persone normali, beh… forse ha dato quel plus in più che serviva alla storia di Connell e Marianne. Godetevela e non pensate a una seconda stagione perché, non penso proprio che ci sarà ed è meglio così (che poi finisce tutto in malora come Tredici e buonanotte).

Little Fires Everywhere

Gli anni Novanta, i sobborghi dell’America bene: questa l’ambientazione della miniserie Amazon che vanta come protagoniste Reese Whiterspoon e Kerry Washington che interpretano due madri molto diverse tra loro – la prima working mom/angelo del focolare così inquadrata che sembra una cornice, la seconda single, artista, con molti segreti – ma entrambe determinate a fare di tutto per i loro figli, anche le cose più discutibili. Dagli eventi che si susseguono come un effetto domino nasce una grande riflessione sul ruolo della donna in generale e sulla maternità in particolare: quando ci si può definire madre, il figlio è più di chi lo genera o di chi se ne prende cura? Le risposte che potrete trovare non sono così scontate come si può credere.

The Queen’s Gambit

Non ho mai avuto la pazienza di giocare bene a scacchi ma questa serie ha praticamente appassionato tutti, anche chi come me è al livello Monopoli dei giochi di società. Ma la miniserie parla soprattutto di Beth, una ragazza che ha trovato in questo gioco la sua ancora di salvezza per sfuggire al momento più grigio della sua vita, e che è diventata per lei un’ossessione, una ragione di vita: si ritrova a combattere su più fronti, nel campo di battaglia della scacchiera in cui è sola contro un mondo fatto solo di uomini (però non riesco ancora a comprendere perché negli scacchi, un gioco mentale, ci debbano essere le categorie di genere come per l’atletica), e in quello della lotta contro sé stessa e le sue dipendenze, che ritiene indispensabili per raggiungere i suoi obiettivi. 

I nerd accaniti troveranno nel cast Jojen Reed e il cugino Dudley in versione provetti scacchisti.

The Wilds

La premessa sembra essere quella di Lost: un gruppo di ragazze naufraghe su un’isola deserta. Ma basta veramente poco perché le carte appena messe in tavola vengano rimescolate, e ci si chieda che cosa sta succedendo davvero. L’ambientazione mi ha ricordato un Signore delle mosche al femminile (e in chiave ultrafemminista, di cui si portano all’esasperazione tanti aspetti), con delle protagoniste mai banali, per niente patinate (basti vedere che dopo quasi un mese di isola hanno tutte la faccia accartocciata dal sole) e portatrici di un bagaglio di esperienze enormi; i disturbi alimentari, l’omosessualità, i rapporti con i genitori, la religione, i problemi comportamentali, la pedofilia, per dirne solo qualcuna. L’unica cosa che mi ha fatto rimanere con l’amaro in bocca è l’ultima puntata in cui si lasciano appesi troppi interrogativi: fortunatamente hanno già confermato la seconda stagione quindi godetevela tranquilli che presto si saprà tutto.

Bridgerton

Una chicca uscita proprio a Natale e che, approfittando di queste feste blande, ho finito letteralmente il giorno dopo. Ed era proprio quello che ci voleva: 8 puntate di piacere in cui si incastrano (quasi)* perfettamente il dramma in costume e gli intrighi alla Gossip Girl (che qui risponde al nome di Lady Whistledown e ha la voce della divina Julie Andrews). Tratto dalla serie di libri di Julia Quinn, eleva il genere harmony senza essere trash, i personaggi sono calati perfettamente nel loro secolo ma hanno quel tocco di modernità che non risulta però invasivo ma li rende tridimensionali. Quindi come la protagonista, Daphne, è la tipica debuttante che spera di trovare marito il prima possibile ma sa riconoscere il suo ruolo nella società e la prepotenza degli uomini che si approfittano del loro potere, la sorella Eloise (la mia preferita) sembra essere finita lì attraverso un viaggio nel tempo, per gli atteggiamenti molto contemporanei, ma riesce, seppur con molte proteste, a inserirsi nel mondo dell’alta società londinese mantenendo la sua personalità. Per le storie d’amore fa uso dei classici topos (lei che vuole sposarsi/lui scapolo incallito, la differenza di ceto, il triangolo no) ma li riesce a rendere nuovi, freschi, con audacia e senza nessun apparente filtro.

*il “quasi” è solo per chi pensa di trovare in questa serie accuratezza storica da fare invidia ad Alberto Angela. Guys, è Shondaland, quindi via a inclusione, categorie lgbt e una regina Charlotte rappresentata da una donna di colore insolente e autoritaria. 

Ed eccoci giunti alle due menzioni d’onore.

Jane The Virgin 

Nonostante sia un recupero per me che una novità, questa, più di tutte, è stata LA serie del lockdown. Quella che ho visto a pranzo e a cena ininterrottamente da inizio marzo, quella che in casa ci ha fatto compagnia, permettendoci di isolarci, almeno per 40 minuti, da quello che succedeva nel mondo. Avevo già provato a seguire la storia di Jane Gloriana Villanueva, la giovane ragazza incinta nonostante la verginità a causa di uno scambio di provette, ma solo quest’anno sono riuscita ad apprezzare la sua folle famiglia (Rogelio sopra tutti), il suo ritmo da telenovela folle, le transizioni di scena mai banali e le riflessioni nascoste in tutti gli intrecci. Se avete voglia di un binge watching che duri e amate le serie non convenzionali questa potrebbe fare al caso vostro. 

La terza stagione di Anne with an E

Con questa il 2020 mi ha dato un altro colpo al cuore, sia perché è stata un’altra cancellazione ingiusta compiuta da Netflix, sia perché sono riusciti, nonostante sole dieci puntate, a chiudere la maggior parte degli intrecci e a far esplodere il cuore a chi, come me, è amante dei secchioni di Avonlea e di tutto il loro universo, di cui renderemo Matthew il rappresentante. Spero comunque che si riesca a produrre almeno un film per dare una conclusione ancora più degna a questa serie che ha riportato a conoscere, in modo inedito ma rispettoso, un grande classico della letteratura per ragazzi. 

Maria Chiara Paone 

Beastars

Per chi ha nostalgia di Bojack Horseman o del più “candido” Zootropolis la soluzione potrebbe essere fare un bel binge-watching della prima stagione di Beastars, anime della Orange Production tratto dal manga omonimo di Paru Itagaki e che fa parte del catalogo di Netflix

Infatti i temi principali della serie richiamano una sorta di legame con le opere citate, che non sembrano avere niente in comune tra loro: un universo di soli animali antropomorfi – gli umani si affiancano a essi solo in Bojack – i rapporti tra le diverse specie e la difficile convivenza tra la classe dei carnivori e quella degli erbivori. Il tutto è mixato nell’atmosfera giapponese dei tipici anime adolescenziali, divise scolastiche, situazioni adolescenziali e un po’ di patemi amorosi. 

La storia è ambientata principalmente nell’istituto privato Cherryton, all’alba di un evento tragico: l’omicidio di un alpaca di nome Tem. Inizia così a farsi strada, ancora una volta, la diffidenza degli erbivori della scuola verso i compagni carnivori, fortemente discriminati per la loro natura aggressiva. 

Uno di questi è Legoshi, un lupo grigio in possesso di un’innata sensibilità con cui cerca di limitare sé stesso mostrandosi schivo e mansueto. Le cose cambieranno a causa (oppure per merito?) di un particolare incontro con la coniglietta Haru che lo metterà di fronte ai suoi istinti, facilmente interscambiabili: la vede come oggetto di desiderio o come preda?

Con i suoi dodici episodi (e una seconda stagione in arrivo) Beastars riesce a catturare, anche grazie ai cliffhanger e al clima di tensione generale che si ricrea anche nelle varie dinamiche: una tra tutte quella tra Legoshi e la star del club di teatro, il cervo rosso Louis che cerca di farsi spazio nel mondo grazie alla sua popolarità e alla sua ambizione, ma non riesce ad accettare la sua condizione di erbivoro – che lo rende certo più debole – e disprezzando chi, come Legoshi, non sa essere fiero della propria superiorità fisica, del suo status di predatore. Chi vedrà la serie doppiata riconoscerà subito nella sua voce il grande Flavio Aquilone, che sembra dare vita a un Light Yagami versione animale (le caratteristiche per ora sembra averle tutte!). 

Spesso viene dato spazio ai vari personaggi secondari, concedendoci di entrare nei loro pensieri: i più divertenti e ricchi di “empowering” sono decisamente quelli della gallina Legom e della sua missione di vita.  

Per quanto sembri un classico anime adolescenziale di amoretti, ci sono molti elementi che lo rendono differente. C’è molta tridimensionalità nei personaggi che evitano di sembrare scontati: tutte le specie, carnivori ed erbivori, hanno i loro pregi e difetti anzi, quelli che ne pagano di più il prezzo sono stranamente quelli considerati più forti, che subiscono attacchi di bullismo e di isolamento a causa del pregiudizio. Sorprendentemente anche il personaggio di Haru vive una sorta di dualità del suo essere, che la rende oggetto di pettegolezzi e derisioni ma spinta da una motivazione forte, fuori dalla semplice apparenza. La tridimensionalità si avverte anche nelle ambientazioni, che si estendono al di là della scuola: i ragazzi visitano la città e scoprono a loro spese il prezzo che ha il compromesso della convivenza pacifica.

Un’ultima nota è da dedicare alla sigla, stravagante e meravigliosa, realizzata mediante lo stop motion in cui Haru e Legoshi si muovono tra il giorno e la notte, sempre sul filo del rasoio riguardo al loro rapporto e al modo in cui viverlo. 

Maria Chiara Paone

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