Leggere Althénopis è stato folgorante. Già dalle primissime pagine sono stata rapita dalla musicalità, dalla potenza della scrittura di Ramondino, così immensa già in questo suo romanzo d’esordio. Appena mi sono addentrata nella vita di questa bambina, protagonista del romanzo ho avuto un desiderio: aver scritto questo libro.
Una prosa semplice, una voce narrante infantile ma complessa, una poetica caratterizzata dall’assenza di un’unica lingua. Ramondino utilizza l’italiano accanto al dialetto, ma anche una serie di ulteriori suggestioni linguistiche derivanti dalla vita ricca di spostamenti dell’autrice, che si leggano anche come assenza di un’unica patria, di un’unica casa, cosa per altro sottolineata in alcune parti del romanzo.

La passione per la scrittura della Ramondino le viene inculcata dalla nonna. La figura della nonna è emblematica nel suo romanzo, che descrive una cosmogonia familiare, di linea totalmente femminile. Partendo dalla descrizione della sua Nonna, una tipica incarnazione della Grande Madre Mediterranea: irrequieta, iperattiva, sempre a fare strani intrugli, parlando dialetto e cercando in continuazione compagnia.
Poi la Madre, fluttuante in un mondo parallelo di letteratura ed emicrania, insofferente di fronte a quel paesaggio composto da una marea di poveri e vecchi, insofferente anche verso la sua di madre, che dava ai figli un esempio non alto borghese come lei avrebbe voluto. In fondo l’educazione della protagonista e dei suoi fratelli era eterogenea e disordinata, ma sicuramente non povera.
«E poi povera donna, vergine sposa trentaseienne, l’ebbe la sua settima vita; e da quella natura minerale e vegetale entrò nella natura sanguigna, umorale e sudorosa degli amplessi, dei parti, del latte e delle ragadi. Sicché lei, nata da ascendenti vegetali, al cui orecchio si incurvava il capelvenere, delle gambe di canna, nei cui occhi si riflettevano l’azzurro dei fiori, il grigio finissimo del muschio e perfino a volte lo smeraldo ghiacciato del male, era piombata nel terzo regno: il regno zoologico. E giù il sangue, il latte, gli umori, i sudori. E su tutto, sovrastanti i «pensieri».
[…]
A me pareva che la mamma, chi sa quando, forse quando eravamo partiti dalla bella isola, o forse molto prima, quando ancora non ero nata, si fosse messa tra parentesi. La chiudevano anche come due parentesi i muri di quella casa, che parevano fatti di tempo: da una parte il muro del giorno da cui eravamo arrivati, dall’altro quello del giorno in cui saremmo partiti. Ma ogni tanto ne usciva.»
Poi c’è lei, la protagonista, la Bambina che scopre il mondo con i suoi compagni, che con occhi curiosi e perspicaci dipinge tutti i personaggi che ha incontrato nella sua vita, tutti i luoghi tra la Costiera e Althenopis, le case, le ville, gli scorci. Descrive il suo rapporto con gli altri bambini, raccontando alla perfezione lo stato in cui versavano le famiglie napoletane, guardando alla sua sempre come a un’eccezione.
Natalia Ginzburg definì la sua infanzia e quello che traspare da Althénopis come: «un’infanzia pronta a mettere radici ovunque, ma tuttavia consapevole del fatto che le radici sono sempre fragili, che nei giorni più limpidi e solari si nascondono insidie, che ogni radioso paesaggio può di colpo sparire».
Sia la protagonista di Althenopis che la Ramondino stessa, hanno avuto una formazione itinerante. L’autrice viaggia in tutta Europa durante la sua infanzia insieme alla sua famiglia, seguendo il padre diplomatico e anche successivamente la sua vita sarà caratterizzata da moltissimi spostamenti. Questi viaggi lasciano dentro di lei dei solchi profondi, stilistici e linguistici, che si possono appurare in alcune delle sue opere.

Dai suoi viaggi in Spagna, ricorda il benessere e la villa di Son Batle e anche qui un immenso personaggio femminile che è la balia Dida: «regina di tutti, servi e padroni, piante e animali, stanze e patios, stelle e pianeti» nel suo Guerra d’infanzia e di Spagna. Ma è proprio nella sua reale guerra d’infanzia nel soggiorno spagnolo, in cui inizia l’istruzione linguistica: qui impara l’italiano dei genitori, il castigliano del collegio e il maiorchino della servitù, dialetto censurato dal regime franchista, ma che lei cercherà di utilizzare e soprattutto porterà nel cuore e nel suo libro.

Un altro viaggio sarà poi importante per lei e diventerà il fulcro di un altro libro che è Taccuino tedesco. Ramondino si trova in Germania per seguire la figlia Livia, presa alla scuola di danza diretta da Pina Bausch a Essen. Qui prenderà nota durante il suo soggiorno dei cambiamenti della società tedesca, in particolar modo dopo la caduta del Muro di Berlino. In realtà il tedesco non è un nuovo idioma, anche questo era penetrato nella sua vita in giovane età, quando alla morte del padre, dopo una serie di peregrinazioni di casa in casa, fugge dalla sua Napoli e da sua madre, seguendo un cugino a Francoforte.
«Althénopis è un nome inventato per Napoli. Non ho sentito di chiamarla col suo nome, e ho inventato questo pastiche. In una nota scherzosa del libro dico che Althénopis con una commissione di radici greche e tedesche significa occhio di vecchia, come l’avrebbero chiamata i tedeschi durante l’occupazione vedendola così imbruttita, rispetto ai racconti di Ghoethe o Mozart. C’è anche la possibilità, in quella nota, che l’interpretazione sia occhio che risana, nome che indica appunto la relazione con la città materna: Napoli per i suoi abitanti è una grande madre.» È con queste parole che Ramondino descrive il titolo del suo primo romanzo, in cui viene descritta in maniera formidabile proprio l’occhio di vecchia, con la sua popolazione malconcia, turbata dalla Guerra, decadente, da una parte inospitale, ma dall’altra incantatrice.
C’è un profondo ossimoro che solca le pagine di Althénopis: nonostante si tratta della visione di una bambina poi adolescente, che descrive un mondo subalterno, traviato dalle difficoltà, lo stile e il linguaggio sono voluttuosi e opulenti. Le descrizioni sono cariche, dettagliate, avvolgenti. Le parole formano una musicalità nuova e originale, data comunque dalla commistione di italiano e dialetto. La grande ricchezza di questo romanzo è sicuramente la numerosissima mole di note, che sono usate da Ramondino in modo inusuale: ampliano le caratteristiche dei personaggi, si soffermano su alcune parole specifiche per spiegare al lettore perché sono state scelte e collocate proprio in quel punto del romanzo.
Tra quelle che ho amato di più c’è sicuramente la nota che spiega e definisce il termine ruoto:
«Teglia di rame o alluminio di forma rotonda. È un vocabolo solare e festoso che andrebbe introdotto nel dizionario italiano. Immeschinisce il cibo che esce dal forno la parola «teglia», che andrebbe però conservata per quei pasticci al forno di sapore intimistico a base di burro e di besciamella; è da escludere nel modo più assoluto invece per timballi di maccheroni, le pizze al pomodoro, le parmigiane, le alici al gratin, le pastiere, le pizze di scarola e di ricotta.»
Nella narrazione in Althénopis Ramondino fa uso sia della prima che della terza persona, in particolare la terza persona viene utilizzata come una sorta di schermo dal dolore, andando così a scrivere mantenendo un certo distacco, pur facendo sempre incursioni in prima e viva persona nelle note.
È stato sicuramente il più bel libro che io abbia letto quest’anno, ed è diventato dalle primissime pagine uno dei miei libri del cuore, accompagnato dal fatto che la sua autrice è stata una donna straordinaria: non solo una grandissima scrittrice, ma anche un’attivista, che si è sempre battuta per i diritti delle persone non privilegiate.
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