Luci e ombre dell’aura aetas

Torna la nostra amata Lucrezia, che ci delizierà anche la prossima settimana con l’ultima parte sul nostro amatissimo Ovidio. Come avete notato, il fil rouge di questo Robbe Grosse è la condizione femminile e come la donna viene trattata nelle opere del nostro Grande Naso. Se la volta scorsa (recuperabile qui) il focus era sull’Ars Amatoria, questa volta ci spostiamo su un’altra fondamentale opera di Ovidio: le Metamorfosi.
Lascio la parola all’esperta e buona lettura!

Eccomi di nuovo ospite dell’adorabile Carla, che mi ha concesso questo spazio per continuare a raccontarvi della Roma ai tempi di Ovidio. E in particolare, di un argomento ricorrente tanto nell’Ars amatoria (al centro dello scorso episodio) ma soprattutto del suo capolavoro, le Metamorfosi. Lo stupro. 

Ma non si può parlare di stupro (femminile, e sì, anche maschile) senza guardare alla posizione della donna nella società della Roma del passato. Una posizione, come forse saprete, di minorità: per tutta la vita, la donna rimane sotto la protezione degli uomini di famiglia, del padre in primis; una condizione sottolineata anche dalla mancanza di nome proprio (i nomi di donna sono quelli della gens, la stirpe paterna, con desinenza femminile). 

Sudditanza che non ha certo fine col matrimonio: semplicemente, la donna passa perlopiù sotto la tutela del marito, secondo i principio della tutela mulierum perpetua

Ritenuta fisicamente e intellettualmente più debole, nonché naturalmente portata al vizio e alla ricerca del lusso, la donna nella società romana viene costantemente controllata “per il suo bene”; la sua passività è tale che (almeno teoricamente) le è negata l’autodeterminazione fisica, la libertà di scelta circa il portare o meno avanti una gravidanza, nonché il diritto di decidere altrimenti per un figlio rifiutato dal marito (spesso proprio perché… di sesso femminile).

Controllare la donna vuol dire anche preservare le proprietà di famiglia e il trasferimento delle proprietà attraverso l’istituzione del matrimonio, essenzialmente uno scambio di beni. Beni che è importante si mantengano intatti prima quanto dopo lo sposalizio: per questo, la donna romana è una vergine casta e una moglie fedele, caratterizzata da una pudicizia che è integrità morale ma anche fisica, che dia al marito figli legittimi e allo Stato cittadini romani in piena regola (un matrimonio legale assicura ai frutti dell’unione la cittadinanza paterna; in assenza di ciò, il figlio prende quella della madre, almeno che non si tratti di una cittadina romana). 

Nonostante la sfera pubblcia tarpi essenzialmente le ali della donna fin nelle sue scelte più intime per mezzo di una serie di leggi e consuetudini, si pretende che tra moglie e marito regni la stessa concordia che assicura la pace dello Stato. Fin dagli inizi della civiltà romana, con l’episodio del ratto delle Sabine, esiste un legame tra il corpo casto della donna e l’armonia della cosa pubblica. La donna, con la sua capacità riproduttiva, è essenziale per la crescita dello Stato; ma anche un pericoloso elemento di disturbo: il suo corpo è “penetrabile” (contro la supposta impenetrabilità di quello maschile), dunque possibile soggetto ad “invasione estranea”, quasi si trattasse di un territorio, o un possedimento; così l’onore femminile, costantemente in pericolo di ingerenze esterne, è equiparato a quello della sua famiglia, un retaggio che ci portiamo dietro fino ad oggi. 

Ma pace e concordia non sono mai i pilastri fondamentali di Roma tanto quanto nell’Età augustea. Il periodo compreso tra la morte di Cesare nel 44 a.C. e quella di Augusto nel 14 d.C. si apre col tumulto della guerra civile per culminare nel ritorno (apparente) di un’aura aetas (“età dell’oro”) a cui Augusto dà forma a colpi di legislazioni e propaganda. Parte della sua strategia è riappropriarsi dei miti fondanti della storia di Roma (lo stupro di Rea Silvia; il ratto delle Sabine; lo stupro di Lucrezia; la morte di Virginia) come arma per creare un nuovo modello di Stato. E inevitabilmente, la nuova moralità augustea va a toccare la cittadina romana nel corpo come nell’autonomia.

Durante gli ultimi anni della Repubblica, numerose figure femminili hanno preso preoccupante visibilità, anche se in associazione coi parenti uomini: Terenzia, Clodia, Fulvia sono nomi pericolosamente conosciuti nella scena pubblica. Le donne accedono al potere grazie a matrimoni vantaggiosi e divorzi relativamente rapidi. Non solo le unioni legittime, ma anche l’adulterio lega famiglie influenti (un famoso esempio: Cesare e la sua amante Servilia) che si riuniscono in fazioni avverse. Alleanze si fanno e si disfano nel letto coniugale e adultero; la legittimità dei figli è messa in discussione, e con essa quella dei cittadini romani. Un caos che non a caso rispecchia l’instabilità politica nell’Urbe dei tempi. 

Preso definitivamente il potere attorno al 27 a.C., Augusto si dà da fare per porre fine a tutto questo, a partire dalle fondamenta dello Stato: il nucleo domestico. La donna deve tornare all’antica castità. In casa, protetta dallo sguardo esterno e dalle inevitabili tentazioni della sua natura debole, dedita a filare la lana ad allargare la famiglia. Esempi virtuosi femminili dei tempi includono Ottavia, sorella del princeps, sposa tradita dall’infedele Marco Antonio per la corrotta straniera Cleopatra (non per nulla, donna notoriamente emancipata); Livia, la moglie del princeps (che ha avuto ben più di una consorte, e ha conosciuto e messo gli occhi su Livia quando era ancora incinta del primo marito), ritratta in abiti modesti e a capo coperto, ma col diadema di Cerere, dea delle messi e della fecondità; le due Antonie, figlie di Ottavia e Marco Antonio, rinomate per pudicizia; Agrippina maggiore, nipote del princeps, lealissima sposa di uno dei presunti eredi di Augusto. Si tratta spesso di apparenza: tanto Livia, quanto Ottavia e la stessa Agrippina, gioca ancora ruoli politici a porte chiuse, ma a contare è l’immagine di una famiglia imperiale imperniata su concordia e stabilità, con ruoli di genere rigidamente stabiliti. 

Perché ciò accada, è necessario che lo Stato metta mano più ferma nella vita privata dei suoi cittadini – e lo fa con due leggi che ho nominato nello scorso articolo, passate entrambe nel 18 a.C.: la Lex Iulia de maritandis ordinibus e la Lex Iulia de adulteriis coercendis

Piccolo recap per chi si fosse perso la puntata precedente: se il primo dei due provvedimenti promuove il matrimonio e l’aumento delle nascite negli alti ranghi della società (proibisce ad esempio alcune unioni tra individui di classi differenti: fuor di questione sono legami legittimi con prostitute, attrici, adultere e criminali, e, per i senatori e loro discendenti, con le liberte), garantendo tutta una serie di diritti e vantaggi a uomini sposati e con prole numerosa; la seconda legge disciplina invece l’adulterio, nelle sue varianti incesto, stupro e lenocinio. 

Lo stuprum in particolare regola la cosiddetta attività sessuale criminalizzata: un uomo libero può accompagnarsi a una prostituta, ma non ad una donna patrizia vedova o nubile. Chiaramente, il sesso fuori dal matrimonio è severamente punito per le donne in qualunque circostanza. L’adulterio diventa un crimine civile anche se commesso da un uomo; d’altra parte, lo Stato entra nelle case dei cittadini fungendo da giudice per le singole trasgressioni. 

Se una volta il marito poteva uccidere legalmente l’amante della moglie a prescindere dalla classe sociale, adesso l’adulterio deve consumarsi sotto il tetto coniugale, e l’amante può essere legittimamente eliminato solo se uno schiavo, liberto, criminale o gladiatore. 

La giustizia è nelle mani del paterfamilias, ma in misura ridotta rispetto la passato. Se in questo senso le donne sembrano più protette, d’altra parte le punizioni sono più severe. Un’adultera perde parte sostanziale della sua dote, la sua unica entrata, viene bandita a vita e non potrà più sposare un cittadino romano libero. La donna, se non è casta, inquina la nuova società che Augusto sta tentando di creare, fatta di matrimoni duraturi, con individui della giusta classe sociale, che risultano in prole numerosa e legittima. 

Le donne, inoltre, rimangono in condizione di minorità anche sotto un altro aspetto: se tradite dal marito, possono muovere accuse solo in certe circostanze (l’amante deve essere sposata o non registrata come prostituta) e mai in prima persona: padre o tutore dovrà farlo per lei. 

Lo stesso accade se vittime di stupro. La donna (esclusivamente libera) denuncia tramite il padre, il marito o il tutore, e il violentatore può essere condannato tanto a morte, quanto a una lauta multa (da pagarsi alla famiglia della vittima, non a lei in prima persona) oppure , semplicemente, a sposare la vittima senza una dote (suona familiare?), a seconda dei casi. E se dovesse continuare ad abusare di lei, poco male: un marito che stupra la moglie agisce nei suoi pieni diritti.

Le accuse possono essere civili quanto legali, come quella di vis, l’aggressione sessuale. Di tipo legale è anche lo stuprum, che si occupa dello stupro da parte di sconosciuti e conoscenti, ma anche della seduzione fuori dal matrimonio. Lo stupro in quanto minaccia alla castità femminile è invece un reato di iniuria.

Tutto molto complesso, senza dubbio. Ma la complessità non equivale al reale proposito di proteggere o garantire che giustizia sia fatta per la donna in quanto individuo. La donna stuprata è essenzialmente merce danneggiata. La parte lesa è sempre la famiglia. La famiglia è quella di liberi cittadini romani.

Le donne (ma non solo) sono merce fragile. Il loro ruolo nella società come oggetto di penetrazione è definito persino a livello medico: medicina galenica e corpus ippocratico concordano nel sostenere che il corpo è semi-permeabile, poroso, fluido. All’interno, secondo la teoria ippocratica, quattro umori si bilanciano nei fluidi corporei, che entrano ed escono da un corpo che è simile a una spugna, potenzialmente influenzato da forze esterne. 

La medicina galenica si concentra invece sul sangue e sulla temperatura. Il corpo femminile è freddo, aperto, permeabile, umido, perde fluidi (ma produce una dose di calore grazie al ciclo mestruale, arrivando allo stesso livello di quello di un ragazzo giovane).  Incontrollabile, in sostanza. 

Quello dell’uomo formato è solido, stoico, impenetrabile. L’uomo formato è teoricamente immune dalla penetrazione; è lui a penetrare, fisicamente e socialmente. 

Come difese facilmente espugnabili, le donne rappresentano un pericolo per il buon nome della famiglia anche quando sono vittime di violenza – al punto tale che in alcuni casi si cerca di liberarsi della donna abusata, perché ritenuta  ormai “inaffidabile” produttrice di discendenza legittima. Per questo, le donne vanno protette nel sancta sanctorum della casa.

Più esposte alle intemperanze della vita sociale, le donne delle classi più basse corrono i maggiori pericoli, ma è importante sottolineare che l’idea dello stupro permea la società romana a tutti i livelli, senza distinzioni di genere.

Vulnerabili sono le schiave, oggetti nelle mani del padrone, le prostitute (escluse, a sentire Catone, dal poter muovere accuse di vis), le straniere, le prigioniere di guerra. 

E sono proprio gli uomini a tramandarci alcuni di episodi che le vedono protagoniste e vittime, grazie alle declamatio, esercizi di retorica per giovani educandi nell’arte della parola. Si tratta di testi che spesso riportano dettagli di casi giudiziari, e la violenza sessuale contro le donne è un argomento ricorrente: le vittime vanno dai tredici anni in su, sono spesso rapite (dal verbo rapere, della stessa famiglia del “ratto”), vendute come schiave sessuali, stuprate in gruppo. 

Ritroviamo un nome familiare. Cicerone, famoso per il suo eloquio, non solo pubblica molti di questi testi, ma si occupa anche, famosamente, della difesa di un influente politico, di nome Gneo Placinio, accusato tra le altre cose di aver violentato una giovane mima di provincia, dando inizio a quello che è un vero e proprio stupro di gruppo. 

Le mime: attrici in spettacoli di bassa lega, spesso indirizzate alla carriera da genitori poveri in canna, o alternativamente delle schiave. Si esibiscono sul palco poco o a malapena vestite, il che le relega allo stato di oggetti sessuali agli occhi del pubblico pagante (Marziale, nel ricordare la danza di un’attrice, scrive: «Avrebbe fatto masturbare anche Ippolito!»). In quanto “volontariamente” esposte di fronte a un pubblico, ufficialmente rappresentano la feccia della società. E non può esserci violenza nell’aggredire una donna che si mette in mostra in questo modo.

La protagonista di questo episodio non ci lascia il suo nome, né parole dirette: le mime non possono testimoniare in tribunale, nel 54 a.C.. Sappiamo che si stava esibendo quando Placinio è salito sul palco, l’ha gettata a terra, le ha strappato i vestiti ed ha abusato di lei davanti alla folla plaudente (lo stupro delle attrici viene liquidato come una tradizione da Cicerone, di cattivo gusto, ma innocente; l’episodio, peraltro riportato alla luce dai nemici dell’accusato nel contesto di ben più importanti addebiti di corruzione, irrilevante). A quanto ne sappiamo, Placinio non ha fatto in tempo a staccarsi dalla ragazza che i suoi amici sono emersi dalla folla per gettarsi sulla mimula, come la definisce Cicerone: forse per sminuirla, forse per indicarne l’età (le mime iniziavano a lavorare sul palco attorno ai dodici anni).

La mimula non ottiene giustizia per quella che viene definita una sventatezza di gioventù. Né l’otterranno le altre donne da cui Placinio, il cui ricco padre è nelle grazie di Giulio Cesare, sarà accusato di violenza carnale. Certo se, a sentire Cicerone, si tratta solo di seguire una tradizione, viene da domandarsi come mai i suoi nemici abbiano ritirato fuori questa vecchia storiella sordida per dare contro al potente Placinio. 

Tornato dall’epoca di Augusto, nel corso del tempo lo stuprum diventa un reato separato dallo stupro, le cui pene saranno normate da una legge ad hoc, la Lex Iulia de vi.  Lo stuprum finisce dunque per indicare quelle relazioni sessuali inaccettabili con donne vedove, nubili, uomini liberi o ragazzi. 

Se infatti i rapporti tra uomini sono accettati, a Roma, sono accuratamente normati dalla Lex Scantinia, pena l’infamia per sé e la propria famiglia. Essenziale è che il cittadino romano formato non prenda posizione passiva in un rapporto sessuale (equiparandosi a una donna), in qualunque caso. Accettabili sono i rapporti con schiavi, prostituti o gladiatori, a patto che il cittadino romano conservi il ruolo di penetrator; ma mai con un pari. 

In una società in cui gli uomini interagiscono soprattutto con gli uomini, ciò non avviene mai come tra i ranghi militari. Il sesso tra soldati è trattato come stuprum, ed è severamente punito; accettabile è invece lo stupro di nemici e prigionieri in tempo di guerra, anche se esistono penalità in caso di pace. 

Severamente puniti sono i tentativi di violenza da un soldato a un altro, fosse anche un superiore: abbiamo notizia da Plutarco, nella sua biografia di Mario, di un soldato che, messo sotto processo per l’omicidio di un collega più alto in grado, rivelata la ragione del suo gesto (una tentata aggressione di carattere sessuale), viene rilasciato e onorato per aver protetto la propria virilità.

Qualcosa di simile accade per i civili, esentati dalle ripercussioni della Lex Scantinia se vittime di violenza; severamente puniti sono invece i violentatori. Ma bisogna ricordare che la punizione, come per la donna, non viene inferta in quanto colpevole di violenza contro in individuo, con la sua fisicità violata e il danno psicologico che ne consegue; quanto piuttosto al suo status privilegiato di uomo libero. 

O di giovane romano libero. I ragazzi sono prede particolarmente ambite, da un punto di vista medico accomunate alle donne per produzione di calore e permeabilità. Per questo, i giovani liberi indossano la praetexta, una toga che simboleggia la loro condizione di intoccabili. 

Non così per gli schiavi, soprattutto i più giovani. Il termine per uno schiavo di letto bambino o ragazzo è puer delicatus: privi di protezione di qualunque tipo, vengono spesso pettinati e imbellettati come bambole, vestiti con abiti femminili (non a caso), addirittura castrati per porli in una condizione di eterna infanzia. Al punto tale che verrà promulgata una legge che vieta la castrazione dello schiavo “contro la sua volontà” per guadagno monetario da parte dei mercanti. 

E le relazioni tra donne? Da quanto ne sappiamo vengono considerate innaturali. Troviamo un esempio di donne innamorate proprio nelle Metamorfosi di Ovidio: Ifi, figlia di Lidgo, viene cresciuta come un uomo dalla madre: Teletusa teme che il marito ucciderà la figlia, venuto a sapere il suo sesso di nascita. Ifi viene cresciuta con quella che diventerà poi la sua promessa sposa, Iante. Le due ragazze si innamorano, ma Ifi afferma che «nessuna donna desidera un’altra donna… la figlia del Sole ha desiderato un toro, ma almeno erano maschio e femmina, meno folle del mio desiderio». La frase si commenta da sé. 

La soluzione è trasformare Ifi in un uomo per intervento divino – l’unica forma in cui per Ifi e Iante possa esserci un lieto fine. Questo perché è probabilmente inconcepibile per la mente di un uomo romano che due donne possano stabilire una relazione sessuale che non culmini con la penetrazione (forse, a Ovidio mancava la fantasia, sotto questo aspetto; tanto più che, se proprio, la presenza di falli artificiali si registra fin dall’Antica Grecia). 

In tutto questo, siamo di fronte a un paradosso evidente. Relazioni perfettamente consensuali vengono disapprovate o ritenute improponibili dall’establishment, mentre atti di violenza sono condonati o nemmeno considerati tali. Anzi sono a volte persino celebrati. 

Quegli stessi miti fondanti di cui Augusto cerca di riappropriarsi per fondare il suo nuovo modello si Stato hanno al centro… proprio episodi di stupro. 

Ma di questo parleremo nell’ultima parte di questo ciclo di articoli. Avete capito bene: per gentilissima concessione di Carla, che ancora una volta ringrazio dal profondo del cuore, le puntate di questo excursus nella Roma di Augusto e Ovidio saranno tre. La prossima settimana torneremo alle origini di Roma e scopriremo lo stupro come tema ricorrente nella sua mitologia; ma anche a Ovidio e alle sue Metamorfosi, alla violenza sessuale come metafora e soggetto letterario. E poi: cosa è e cosa non è cambiato, col passare del secoli, per la donna abusata?

Se vorrete seguirmi per la tappa conclusiva di questo viaggio, ne sarò felice; intanto, vi ringrazio per aver essere arrivati fino a qui.