Non credo ci sia momento migliore di questo per leggere Il sogno del villaggio dei Ding edito da Nottetempo, cronaca romanzata della diffusione dell’AIDS nella provincia di Henan, in Cina negli anni ‘90, scritta da Yan Lianke. C’è una febbre che divora, consuma, che sembra diffondersi più velocemente di qualsiasi altra cosa, sembra propagarsi nell’aria. Tutti sono fiaccati, distrutti. C’è chi è malato, privo di forze, di appetito e chi assiste i malati, conscio che forse quel momento arriverà anche per lui. La chiamano semplicemente febbre o più evocativamente ondata rosso sangue, perché i corpi dei malati si riempiono di pustole che scoppiano e poi basta un graffio, minuscolo, imprevedibile, per raggiungere la fine.

Pensare che il Villaggio dei Ding inizialmente aveva dato un sacco di problemi al governo: i cittadini di vendere il sangue proprio non ne volevano sapere, fino a che il guadagno e l’avarizia non hanno preso il sopravvento. Si guardano intorno gli abitanti del Villaggio o meglio, devono guardarsi intorno. Il governo gli impone di fare delle gite d’istruzione, per far vedere come sono diventati lussureggianti i villaggi vicini, quelli che non hanno avuto remore nell’accettare le proposte del governo. Incantati dalla facilità del guadagno, dalla prospettiva di una vita ricca in cambio di cosa poi? Un po’ di sangue? Gli abitanti si lasciano convincere, all’inizio ancora un po’ titubanti, ma quando iniziano ad arrivare davvero i soldi un’ondata, anzi una marea di persone si convince che vendere sangue è cosa buona e giusta. Non c’è nessuna protezione per loro, ma come potevano sapere che vendere sangue potesse essere così pericoloso?
Ad una prima organizzazione governativa si sostituiscono ben presto organizzazioni private che si assicurano di prelevare il sangue richiesto dalle autorità, tra queste organizzazioni brilla quella del primogenito dei Ding, che diventa in poco tempo il più ricco del villaggio. Lui voleva ottenere quanto più sangue possibile, cosa importa se si dovevano fare controlli prima? Se la gente stava bene perché non avrebbe dovuto vendere il suo sangue ogni 10, perché aspettare 15 giorni o addirittura un mese? Poi quante storie, per un po’ di sangue! Meglio risparmiare usando lo stesso batuffolo di cotone su più persone per pulire, no? Cosa ce ne dobbiamo fare mai di aghi sterilizzati, tanto la gente sta bene, è felice, il governo la sta riempendo di cibo, gioia, benessere, cosa mai può andare storto? (In alcuni casi chi gestiva il traffico locale, visto che i contadini erano fiaccati dalle vendite continue si premurarono di reinfondere il sangue, dopo che era estratto il liquido plasmatico, che era la cosa che interessava al governo, al modico prezzo di 5 yuan.)
“Nelle città e nelle campagne i dottori piangevano disperati di fronte all’avanzare della malattia, ma al Villaggio dei Ding, un medico, seduto tutti i giorni in strada, rideva.”

Il Maestro Ding sa che quella febbre non è semplice febbre, si tratta di una malattia nuova, che pare chiamino AIDS, forse si sopravvive qualche mese, anni, una volta che è arrivata non si può più tornare sani, però sembra che stiano trovando una cura, un vaccino. In fondo il governo Cinese tiene così tanto ai suoi cittadini, non permetterà che questa febbre si diffonda ancora.
(Fino a pochi anni fa, vendere sangue era l’unico modo per sopravvivere nelle regioni più povere della Cina. In realtà le donazioni di sangue dovevano essere gratuite, ma le autorità pagavano fino a 160 yuan per 600 cc di sangue. Nella Contea di Yunxian c’era un centro di raccolta nato nel 1998 che in 11 anni ha accolto circa ventimila persone, raccogliendo sessantamila sacche di sangue all’anno, per un giro d’affari di oltre 10 milioni di yuan. Questo circolo di sangue doveva arricchire il paese attraverso la vendita di plasma liquido alle industrie biotecnologiche dei paesi esteri. Solo con lo scoppio dell’epidemia di Sars nel 2003 il governo ha cambiato le regole, ora il governo continua ad incoraggiare la donazione volontaria, tra individui sani dai 18 ai 55 anni, ma in centri specializzati e a titolo gratuito.)
C’è speranza, nel cuore del maestro Ding, che come sempre cerca di fare la cosa giusta. Lui, il custode della scuola, trasforma quell’edificio, ormai abbandonato, scheletro inerme che un tempo era stato contenitore di sorrisi, giochi, lezioni, in un ricovero per i malati di febbre. Sembra non aver minimamente paura che quella malattia possa colpirlo, si fa in quattro per cercare di alleviare le sofferenze dei malati del villaggio, istituendo una comune, in cui i malati vivono tutti insieme e possono mangiare, riscaldarsi, passare momenti di vita tranquilli senza poter essere un pericolo per i loro familiari ancora sani. Sembra andare tutto benissimo, ma poi iniziano ad esserci scandali su scandali che costringono il Maestro Ding a lasciare la sua posizione e ad affidare la gestione della scuola ad altre persone. La causa di tutti i mali del villaggio dei Ding sembrano essere i figli del Maestro. Il più grande non solo ha portato avanti la più spregiudicata compravendita di sangue, ma ora specula anche sulle morti, comprando e rivendendo bare che sono diventate un bene di prima necessità in una provincia in cui ci sono più morti che vivi. Purtroppo il secondogenito non è da meno, pazzo, cieco d’amore e anche di febbre tenta di divorziare dalla moglie, di passare le sue ultime giornate con la splendida Lingling, moglie del cugino, anche lei malata, devono consolarsi a vicenda, per sopravvivere almeno un altro po’. I figli. Che problema enorme per il povero Maestro Ding, rispettato e amato da tutti, deve cedere tutto ciò che ha perché i suoi figli non hanno avuto un minimo di scrupolo e di dignità, hanno ciecamente seguito i più bassi istinti di guadagno e di lussuria. L’unico discendente che sembra avere la tempra del Maestro sembra essere suo nipote, è sua la voce che ci racconta la storia del Villaggio, una vocina esile, dolce, strappata dalla vita a 10 anni, perché era figlio di suo padre.

Quella prosperità promessa e assicurata dalle autorità cinesi è stata cancellata da una sola sicurezza: la morte. Il Villaggio dei Ding, si prosciugherà come il letto del Fiume Giallo su cui sorge, le persone muoiono di continuo, la morte è così terribilmente presente che lascia totalmente indifferenti, si usa di tutto per costruire una bara, si tagliano tutti gli alberi, si demoliscono armadi, tavoli, lavagne e una volta che la bara è pronta ci si rilassa: si può morire. È di certo un’epidemia completamente diversa, ma in alcuni momenti, durante la lettura, mi sono chiesta se Yan Lianke non stesse anche descrivendo quello che stiamo vivendo ora, senza certezze, con l’ombra di una cura che forse arriverà, ma chissà quando.
“Con la morte in agguato dietro alle porte, chi aveva ancora voglia di coltivare i campi, di uscire di casa per andare a lavorare e a guadagnare soldi? Si restava chiusi in casa, porte e finestre sbarrate, per paura che la febbre trovasse uno spiraglio per intrufolarsi. A dire il vero, la si aspettava, la febbre. Si aspettava e si stava in guardia, giorno dopo giorno. Qualcuno diceva che il governo avrebbe mandato l’esercito con grandi camion a prelevare tutti i malati e li avrebbe portati nel deserto del Gansu per seppellirli vivi, come si faceva una volta, secondo la tradizione, durante le epidemie di peste.”